4 Dicembre 2014

Il transfer price interno

di Nicola Fasano
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Una delle contestazioni spesso mosse dall’Amministrazione finanziaria a società facenti parti di un gruppo nazionale è quella del c.d. “transfer price interno” che può essere collocata nel più generale filone delle condotte ritenute “antieconomiche” da parte del Fisco. In sostanza, vengono contestati alla società verificata o maggiori ricavi (qualora le operazioni antieconomiche siano quelle attive) o minori costi che, in ragione della supposta antieconomicità, sono considerati in tutto o in parte indeducibili in quanto non inerenti.

In proposito è opportuno ricordare che nessuna norma all’interno del Tuir (né tanto meno in materia di accertamento) preveda espressamente la possibilità per l’Amministrazione finanziaria di sindacare la congruità dei rapporti infragruppo fra società italiane, in quanto il fenomeno del “transfer price”, notoriamente, riguarda le società facenti parte di gruppi internazionali che potrebbero avere tutto l’interesse, da un lato, ad allocare ricavi maggiori presso le consociate ubicate in Paese con fiscalità di vantaggio, e dall’altro a concentrare i costi nei Paesi con fiscalità più onerosa. Proprio per contrastare tale fenomeno l’art. 110, comma 7, del Tuir detta per questo tipo di transazioni fra società italiane ed estere, facenti parte del medesimo gruppo internazionale, il criterio del valore normale, da individuarsi sulla base dell’art. 9 del Tuir.

L’impossibilità di applicare il transfer price anche nei rapporti esclusivamente nazionali, peraltro, è stata chiaramente affermata dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 23551/2012, orientamento però che sembra essere stato superato dalle sentenze più recenti di seguito menzionate.

E’ evidente, peraltro, come nell’ambito interno i timori dell’Erario di perdere “materia imponibile” sono molto meno fondati, in quanto, in linea di principio, a fronte di maggiori costi in capo ad una società del gruppo, vi saranno comunque maggiori ricavi in capo alla consociate che dovrebbero comunque scontare tassazione in Italia. Certo, non sempre è così. Potrebbe accadere, per esempio, che i (presunti maggiori) ricavi siano allocati presso un soggetto che gode di un regime fiscale, in senso lato, di vantaggio (come per es. cooperative, società con sedi in aree svantaggiate beneficiarie di talune agevolazioni, società in perdita ecc.) a fronte di (presunti maggiori) costi che maturano in capo ad una società a fiscalità ordinaria.

E proprio con riferimento ad uno di questi casi, la Cassazione, con la sentenza n. 8849/2014, ha concluso che il principio del valore normale dei prezzi, in materia di transfer pricing, vale non solo nei rapporti fra due imprese, una residente in Italia e l’altra all’estero, ma anche con riferimento a soggetti italiani di cui una, la controllante, costituita in forma di cooperativa, beneficiaria in quanto tale di un regime fiscale di vantaggio.

In via ancor più generale è stato inoltre affermato dalla sentenza della Cassazione n. 17955/2013 (che riguardava, fra l’altro, società del gruppo ubicate nel Mezzogiorno) come il criterio del valore normale di cui all’art. 9 del Tuir sarebbe un principio di carattere generale di cui il contribuente dovrebbe sempre tenere conto nel considerare i propri proventi. Portato alle estreme conseguenze, questo ragionamento porterebbe a concludere che addirittura anche in caso di consolidato nazionale alle società facenti parte del gruppo il transfer price domestico potrebbe essere contestato in termini di sanzioni per dichiarazione infedele (pur in assenza, nella sostanza, di una imposta evasa), il che, obiettivamente, pare proprio una aberrazione.

E’ facile prevedere che la questione dovrà essere risolta dalle Sezioni Unite della Cassazione, stante i due opposti indirizzi sviluppatisi in sede di legittimità. Tuttavia, si deve prendere atto di questo, discutibile, orientamento, più recente, per cui una efficace (e non agevole) difesa dovrà incentrarsi a monte, da un lato su come l’Ufficio abbia quantificato il valore normale e, dall’altro, sul concreto rispetto del “valore normale” nella transazione infragruppo. Così, per esempio, qualora oggetto di contestazione siano i servizi resi fra consociate sulla base di uno specifico contratto di servizi, la società beneficiaria degli stessi, a cui sono stati addebitati i relativi costi ritenuti “antieconomici” e non inerenti dall’Agenzia delle entrate, dovrà evidenziare che il reperimento sul mercato dei medesimi servizi sarebbe avvenuto a prezzi più alti (per esempio, se si tratta di prestazioni professionali, potrebbe farsi riferimento a tariffe e parametri) e che, magari, non sono stati acquistati servizi del genere da altri fornitori terzi.

Ai fini iva, invece, sarà opportuno eccepire la sentenza della Cassazione n. 22130/2013 secondo cui i rilievi fondati sull’antieconomicità non possono essere estesi al comparto Iva, in quanto, in particolare per quello che riguarda i componenti negativi, ciò che rileva ai fini della detrazione è l’effettivo sostenimento del costo e l’inerenza rispetto all’attività di impresa, a nulla rilevando il giudizio di congruità sullo stesso, in ossequio anche al principio di neutralità dell’imposta più volte sancito dalla Corte di Giustizia europea.