11 Marzo 2016

Accertamento fiscale e prove atipiche

di Luigi Ferrajoli
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Con la sentenza n. 403 del 13 gennaio 2016 la Corte di Cassazione, Sezione Quinta Civile, si è occupata della questione afferente le rettifiche relative all’imposta sul valore aggiunto effettuate sulla base di elementi probatori costituiti da dichiarazioni autoaccusatorie dell’ex amministratrice della società interessata e da copiosa documentazione extracontabile dalla quale, secondo la Corte di Appello, era risultato che i soci avevano regolato la registrazione e la conseguente ripartizione di incassi in evasione fiscale.

In particolare, il Giudice di appello aveva rilevato che il contenuto dell’autodenuncia presentata dall’ex amministratrice per appropriazione indebita, a seguito di inchiesta testimoniale svolta in sede penale, si era rivelato infondato in quanto i dipendenti della società avevano riferito che era prassi della società non fatturare gli incassi, destinare gli introiti al saldo di debito non iscritto in bilancio e di retribuire parzialmente “in nero” i dipendenti stessi.

Tale modus operandi aveva trovato riscontro in assegni bancari rinvenuti dalla Guardia di Finanza e relativi appunto a partite extracontabili, che costituivano componenti positivi di reddito.

La Corte di Appello, dunque, nel considerare non credibile il fatto che la società fosse inconsapevole delle condotte illegittime poste in essere dai soci, aveva ritenuto il compendio istruttorio emerso come costituente la prova per presunzioni richiesta dalla legge per l’accertamento tributario.

A seguito di ricorso promosso nell’interesse della società accertata, la Suprema Corte afferma  innanzitutto che, sia in materia di imposte dirette, sia con riferimento all’IVA, “è consentito l’ingresso nell’accertamento fiscale, prima, e nel processo tributario, poi, di elementi comunque acquisiti e, dunque, anche di prove atipiche ovvero di dati acquisiti in forme diverse da quelle regolamentate (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32 e 33; D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51), secondo i canoni caratteristici della prova per presunzioni”.

La pronuncia in esame è importante e merita la massima attenzione proprio perché prende posizione sulla prova dei fatti giuridici. In particolare, la Suprema Corte statuisce con chiarezza che “qualunque cosa, documento o dichiarazione può costituire la base per una inferenza presuntiva idonea a produrre conclusioni probatorie circa i fatti della causa”.

Sulla base di tale premessa la Corte rileva che, in ambito tributario, non è possibile stabilire ex ante i requisiti tipici di una presunzione semplice, dovendo procedere alla valutazione dei suoi elementi.

In particolare, la Cassazione cita propria elaborazione giurisprudenziale (sentenza n. 656/2014) secondo cui la presunzione può fondarsi anche solo su un unico elemento, a condizione che sia “preciso e grave”, con la specifica che non è possibile un sindacato di legittimità sulla valutazione operata dal Giudice in ordine alla sua rilevanza, nel caso in cui sia stata fornita idonea motivazione.

Nel caso di specie, ad avviso della Suprema Corte, la Commissione Tributaria Regionale, lungi dall’accettare senza riserve le dichiarazioni dell’ex amministratrice, ne aveva correttamente valutato l’attendibilità ponendole a confronto con i riscontri esterni costituiti, appunto, dalla documentazione extracontabile acquisita e dagli assegni bancari citati.

Inoltre, il Giudice di legittimità richiama il principio già esposto proprio dalla Sezione Quinta della Suprema Corte con la precedente sentenza n. 20857 del 2007, ossia che la rettifica dei singoli componenti reddituali operata con accertamento basato sul metodo analitico-induttivo da parte dell’Ufficio è consentita anche in presenza di contabilità formalmente tenuta, “giacché la disposizione presuppone, appunto, scritture regolarmente tenute e, tuttavia, contestabili in forza di valutazioni condotte sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti che facciano seriamente dubitare della completezza e fedeltà della contabilità esaminata”.

Peraltro, osserva la Corte, in assenza di adeguata trascrizione degli atti impositivi e degli atti presupposti e in mancanza delle necessarie indicazioni per il reperimento di quanto indicato nell’incarto processuale, si verifica un difetto di autosufficienza che impedisce di ricostruire e comprendere “l’innesco processuale in sede di merito”.