11 Febbraio 2014

Antieconomicità e campione di riferimento valido, la contabilità non tiene

di Maurizio Tozzi – Comitato Scientifico Master Breve 365
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Qualche giorno orsono abbiamo commentato la sentenza della CTR Lazio, n. 748/01/13, che nell’affrontare il tema delle ricostruzioni analitiche induttive da parte dell’amministrazione finanziaria fondate sull’analisi di un campione, ha riscontrato, in maniera favorevole al contribuente, come sia necessario che l’accertamento consenta di individuare gli elementi presuntivi validi per la contestata evasione. Se l’indagine è svolta su un campione assolutamente non significativo e tale da non rendere credibili i risultati accertati, la correttezza dei ricarichi praticati, avvalorati dalla “coerenza” degli studi di settore, rimane inviolata.

Oggi affrontiamo il caso totalmente opposto, quello del campione “significativo” e soprattutto della completa inaffidabilità del contribuente in ordine ad un dato “sensibile” quale l’economicità dell’attività svolta. Trattasi della sentenza n. 1839 depositata in cancelleria il 29 gennaio 2014, con cui la suprema Corte ha accolto il ricorso dell’Amministrazione Finanziaria, ritenendo valido l’accertamento induttivo effettuato.

Dai dati emergenti dalla motivazione della sentenza, si legge come l’Agenzia delle Entrate si sia mossa in due direzioni:

  • Da un lato il riscontro dell’antieconomicità dei risultati aziendali raggiunti, manifestati da un ricarico praticamente irrisorio nell’attività di riferimento, pari al 9,78% (settore della vendita a dettaglio dell’abbigliamento);
  • Dall’altro, l’analisi di un campione altamente significativo, rappresentato dal 90% della merce venduta, con confronto dei prezzi di acquisto e di vendita.

Le eccezioni mosse dalla parte, peraltro vincenti nei due giudizi di merito, sembrano fondarsi soprattutto sulla contestazione dell’utilizzo dell’accertamento “induttivo puro”, non essendosi in presenza dei requisiti richiesti dall’articolo 39, secondo comma, del DPR 600/73 ed essendo la contabilità del contribuente totalmente attendibile. Dal che il controllo effettuato, ancorato ad una media aritmetica, non trova fondamento giuridico.

Ovviamente non abbiamo il riscontro dei completi documenti processuali, ma sembrano convincenti le motivazioni addotte dalla Corte di Cassazione, che nell’accogliere il ricorso dell’Amministrazione Finanziaria spiega tra l’altro: “Questa Corte ha più volte affermato (…) che una volta contestata l’antieconomicità (…) poiché assolutamente contrario ai canoni dell’economia aziendale, incombe su quest’ultimo (ossia il contribuente), l’onere di fornire al riguardo le necessarie spiegazioni. In difetto, sarà pienamente legittimo il ricorso all’accertamento induttivo (…)”. Ed ancora: “E neppure tale potere di accertamento potrebbe considerarsi impedito dalla regolarità della contabilità (…) che non può costituire, a fronte di una condotta antieconomica (…) neppure una valida prova contraria (…)”. Al che è ritenuto corretto l’accertamento operato, che ha determinato “(…) in assenza di elementi di segno contrario forniti (…) un ricarico nella misura del 40%, secondo la media aritmetica semplice; criterio, questo, peraltro nemmeno espressamente censurato dalla CTR”.

In definitiva:

  1. L’antieconomicità palese e non giustificata rende inattendibile l’intero impianto contabile del contribuente;
  2. In tal modo si apre la strada all’accertamento induttivo, a prescindere dalla correttezza formale delle scritture contabili, con relativa possibilità di applicare la media aritmetica semplice per la determinazione del reale ricarico praticato.

A questo punto è utile offrire una riflessione di carattere pratico che illustra in maniera chiara la causa determinante di una situazione di antieconomicità come quella analizzata. Un ricarico palesemente basso è frutto, salvo casistiche diverse, di un comportamento all’apparenza anomala: l’imprenditore acquista merce in eccesso rispetto a quella che riesce a vendere, ritrovandosi con grossi costi e rimanenze finali che si incrementano. La domanda spontanea che sorge è: come mai continua ad acquistare se non vende? La risposta vera è dietro l’angolo. Le sole alternative risiedono nel dimostrare la necessità degli acquisti, magari dovuta ad un ricambio della merce venduta (essendo quella in magazzino di fatto fuori mercato), oppure ad acquisti a condizioni particolarmente vantaggiose offerte dai fornitori (ma è evidente che questo atteggiamento non può diventare standardizzato, in quanto qualsiasi imprenditore, se non vende, ad un certo punto ritiene inutile incrementare gli acquisti). Ma se invece il tutto è frutto della vendita in evasione, con relativa necessità di “riequilibrare” la dichiarazione dei redditi emergente mediante un “innalzamento” strumentale delle rimanenze finali, è utile ponderare l’effetto finale di un simile comportamento in caso di accertamento: da un lato, in sede di dichiarazione, aumentando ad hoc le rimanenze finali comunque si rende imponibile ai fini delle imposte sui redditi l’evasione effettuata (in sostanza il contribuente ha incamerato l’IVA); dall’altro, a seguito dell’accertamento, l’IVA è recuperata e inoltre si viene tassati nuovamente ai fini delle imposte dirette. Di fatto, non sembra una grande intuizione.