21 Luglio 2015

Transfer pricing domestico

di Davide De Giorgi
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Con la sentenza n. 12844 del 22 giugno 2015, i Giudici della Suprema Corte hanno avuto modo di ribadire il proprio convincimento sul fenomeno del c.d. transfer pricingdomestico” già chiarito con talune passate pronunce (v. sentenza n. 7716 del 27 marzo 2013, sentenza n. 17955 del 24 luglio 2013, sentenza n. 8849 del 16 aprile 2014).

Dalla lettura della seppur succinta pronuncia de qua si può concludere che la disposizione relativa alla determinazione del valore normale deve essere applicata anche nelle transazioni infragruppo tra società entrambe residenti in Italia, ogni qualvolta il contribuente, con la fissazione di un prezzo fuori mercato, abbia un intento elusivo, e cioè miri a far emergere utili presso la società del gruppo che sconta la tassazione più bassa, non solo per agevolazioni territoriali, ma anche a motivo della veste societaria qualora foriera di un più mite trattamento tributario.

Infatti, seppur a seguito di una interpretazione strettamente letterale delle disposizioni in materie di prezzi di trasferimento previste ex art. 110, comma 7, del D.P.R. n. 917 del 1986, si evince che la norma è applicabile solo in casi di operazioni infragruppo con società dislocate in altri territori rispetto al territorio interno, sulla base della maieutica giurisprudenziale sopra riportata, si rammenta che per “assimilazione”, il c.d. valore normale deve essere applicato anche nelle transazioni infragruppo tra società aventi sede in Italia, c.d. transfer pricing “domestico”.

Più specificatamente, a detta della Suprema Corte “per la valutazione a fini fiscali delle manovre sui prezzi di trasferimento interni, costituenti il c.d. “transfer pricing domestico”, va applicato il principio, avente valore generale, stabilito dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9, che non ha soltanto valore contabile e che impone, quale criterio valutativo, il riferimento al normale valore di mercato per corrispettivi e altri proventi, presi in considerazione dal contribuente. Ciò in applicazione del divieto di abuso del diritto, che preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei a ottenere agevolazioni o risparmi d’imposta, in difetto di ragioni diverse dalla mera aspettativa di quei benefici”.

In punto di diritto si sottolinea che l’articolo 9, non è una norma dettata per le sole transazioni tra una società nazionale ed una estera, e questo lo si evince dalla stessa collocazione della norma tra le “disposizioni generali” applicabili in materia di imposte sui redditi, di cui al titolo I, capo I del D.P.R. n. 917 del 1986. Non a caso, infatti, l’articolo 110, commi 2 e 7 del decreto cit. rinvia al precedente articolo 9 secondo la tecnica normativa del rinvio recettizio ad una disposizione di carattere generale, da parte di una norma speciale che non prevede una disciplina specifica della fattispecie da regolare.

A nulla vale poi lo “scudo” della riserva di legge in quanto, seppur il principio antiabuso non sia stato (ancora) codificato nel diritto interno, è bene chiarire che esso trova già le sue fondamenta nei dogmi costituzionali di capacità contributiva e imposizione progressiva.

Inoltre, il principio antiabuso NON introduce nuovi tributi, piuttosto si traduce nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere allo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali.

Contestualizzando il concetto di elusione nel perimetro dell’ordinamento tributario, con tale termine vengono generalmente identificate quelle condotte finalizzate ad evitare il perfezionamento dei presupposti dell’imposta e quindi l’insorgenza della relativa obbligazione tributaria. La previsione legale, in questo contesto, non viene violata (in maniera palese) ma semplicemente “aggirata”, sfruttando in maniera strumentale le lacune inevitabilmente esistenti nel sistema, ovvero, rappresentando una situazione divergente fra sostanza economica e forma giuridica.

E che il fenomeno elusivo sia un fenomeno antico lo si evince anche da un passo del Consilium n. 135, di Bartolo da Sassoferrato (1314-1357), dove a proposito di una tassa di plateatico (imposta sull’occupazione di spazi e aree pubbliche) dovuta nell’antichità dai venditori di pelli che, con le loro mercanzie, occupavano il suolo pubblico, è stata definita “elusione” l’ipotesi di colui che, cercando di sottrarsi al pagamento dell’imposta, anziché mettere le mercanzie sulla strada o sulla piazza, le teneva sulle braccia.

 

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