22 Luglio 2015

Rebus cassette di sicurezza nella voluntary

di Nicola Fasano
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Uno dei temi più delicati nell’ambito della procedura di collaborazione volontaria è quello relativo alla regolarizzazione del
contante detenuto, solitamente, dal contribuente in
cassette di sicurezza estere o italiane, quale frutto di
evasione fiscale nel corso di svariati anni.
Il problema, strettamente connesso con quello delle
giustificazioni dei prelievi, non è di facile soluzione, anche in considerazione di quanto precisato dall’Agenzia delle Entrate con la recente
circolare 27/E/2015.
Sul punto l’Amministrazione finanziaria precisa che il denaro contenuto in una cassetta di sicurezza che
non è stata mai aperta dopo il 31 dicembre 2009, per un contribuente che non ha omesso la dichiarazione per il relativo anno d’imposta,
non rileva ai fini della procedura di collaborazione volontaria
nazionale (e ci mancherebbe altro, anche se questo per la verità sembra un caso di scuola).
Diversamente se detto denaro era già stato
detenuto in un Paese black list in violazione degli obblighi in materia di monitoraggio fiscale, in un periodo d’imposta per il quale non è decaduta la potestà di contestazione delle suddette violazioni, questo dovrà essere indicato nella relazione accompagnatoria della procedura di collaborazione volontaria internazionale come
prova della dismissione totale o parziale dell’attività detenuta nel suddetto Paese black list.
Secondo le Entrate la prova della disponibilità in Italia del denaro deve essere data attraverso il
versamento dello stesso su di
un conto corrente appositamente aperto presso un intermediario finanziario. Resta fermo, però, che deve essere provato, anche ricorrendo a
prove indirette, il trasferimento del denaro dal Paese black list in Italia; si tratta, ad esempio, del caso dell’accesso ad una
cassetta di sicurezza in Italia nei giorni immediatamente successivi a quelli del prelievo di contante dal conto estero.
Ora, dare la prova, anche solo “indiretta” del trasferimento di contante dall’estero all’Italia in molti casi potrebbe essere
praticamente impossibile: si pensi al caso del contribuente che abbia preferito avere i
contanti prelevati in casa propria, piuttosto che accumulare il cash di
distinti prelievi all’estero presso la cassetta di sicurezza di casa propria e poi fare, magari anche a notevole distanza di tempo, un
trasferimento unico nella cassetta della banca italiana.
In questi casi parrebbe più ragionevole sostenere che la cassetta di sicurezza italiana aperta alla presenza di un notaio che attesti oggi
l’effettiva esistenza delle somme (che poi sarà necessario versare su un apposito conto corrente) rappresenti una prova sufficiente per bloccare eventuali riprese a tassazione da parte dell’Ufficio, fermo restando, ovviamente, la possibilità per quest’ultimo di
attivare ulteriori controlli in capo al contribuente.
Così ad esempio se un contribuente ha formato in anni non più accertabili un capitale estero pari a 300.000 euro prelevando 100.000 euro nel 2013 che ha depositato nella propria cassetta di sicurezza italiana, spendendo, per esigenze personali e familiari ordinarie,
parte di tale somma, potrà essere più che plausibile che all’apertura della cassetta, certificata dal notaio, nel 2015
residuino 70.000 euro. Una prova indiretta dell’utilizzo di parte della somma prelevata per esigenze personali potrebbe anche fornirsi, ad esempio, dimostrando che i
prelievi dal conto corrente italiano nel corso del 2013 sono stati molto modesti (se non addirittura nulli). A tal fine, se opportuno (e sempre che i conti italiani ovviamente siano “in ordine”) potrebbe valer la pena anche
confrontare le spese (presumibilmente più elevate) risultanti dai conti italiani negli anni in cui non sono stati fatti prelievi all’estero.
Insomma, se da un lato l’Ufficio non ha certo il dovere di prendere “per oro colato” (giusto per restare in tema di possibili contenuti della cassette di sicurezza…) quanto affermato dal contribuente, dovendo
vagliare la documentazione da questi esibita e le argomentazioni addotte, dall’altro non può addossare sullo stesso una
prova “diabolica” che non sarebbe in linea con lo spirito stesso della procedura di voluntary (basato per l’appunto sulla collaborazione). Il tanto pubblicizzato “nuovo rapporto Fisco-cittadini”
passa anche da qui.
Né va dimenticato che a
presidio della veridicità di quanto affermato dal contribuente, non a caso, il legislatore ha introdotto lo specifico reato per le dichiarazioni non veritiere o, peggio, false, rese dall’interessato nell’ambito della VD, punendolo con la pena
fino a sei anni di reclusione.