28 Aprile 2015

Il concordato preventivo, la continuità è complicata.

di Claudio Ceradini
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I soci protagonisti del caso della rubrica settimanale sulla crisi di impresa stanno esaminando ogni strumento a disposizione per tentare di risanare l’impresa in difficoltà. Constatata l’impossibilità di avvalersi del piano attestato e dell’accordo di ristrutturazione, si analizza oggi la terza, più incisiva, alternativa: il concordato preventivo.


Martedì scorso il piano di risanamento supportato da un accordo di ristrutturazione del debito, strutturato con grande attenzione per banche e fornitori, concentrando il sacrificio sui creditori che, purtroppo per loro, sono nella condizione peggiore di non essere importanti e di non godere di alcuna garanzia, interna o esterna, era alla fine risultato imperfetto, e la capacità di copertura insufficiente a fronte di un fabbisogno finanziario di 1.150 che, per i tre anni successivi all’esaurimento degli interventi di ricapitalizzazione, avrebbe potuto contare solo sull’ autofinanziamento e sulla riserva di liquidità accumulata nel triennio. Mancano soldi quindi, e si impone la verifica di un ulteriore opzione, più drastica: il concordato preventivo.

La riforma che lo scorso 11 settembre 2012 è entrata in vigore ha introdotto (art. 33, co. 1, lett h, D.L. n. 83/2012, convertito con L. n. 134/2012) l’art. 186-bis della L.F. che disciplina il cosiddetto concordato preventivo in continuità. Il tentativo fu salutato con grande entusiasmo, poiché per la priva volta trovavano disciplina alcuni dei principali problemi che avevano sempre di fatto impedito al debitore di proseguire la propria attività chiedendo ai creditori un sacrificio, normalmente in termini di rinuncia ad una quota capitale della loro pretesa. Pur nell’ambito della grande libertà che l’art. 160 L.F. lascia al debitore sin dalla riforma precedente, quella del 2006 (D.Lgs n. 5 del 09.01.2006), nella progettazione del piano concordatario di risanamento, talune difficoltà rimanevano insormontabili.

Il rigore imposto dalla natura concorsuale della procedura, in cui il creditore individualmente lascia il passo al ceto creditorio, rendeva ad esempio estremamente complessa la posizione dei cosiddetti creditori strategici, parificati agli altri dal punto di vista giuridico, ma sostanzialmente diversi nella conduzione aziendale. Anche il regime della prededuzione, purtroppo peraltro ondivago nella sua interpretazione e formulazione normativa nei successivi anni, trovava nel 2012 codifica, nel tentativo di assegnare ai crediti sorti in procedura il carattere della esigibilità antergata rispetto a tutti gli altri antecedenti. Queste ed altre novità aprirono uno squarcio, perlomeno nelle intenzioni, nella fino ad allora piuttosto consolidata prassi del risanamento “concorsuale”. Il debitore può fare una proposta ai creditori continuando la sua attività con la medesima società, proseguendo a lavorare, e senza dover necessariamente, sembrava, ricorrere ad operazioni complesse quali l’affitto di azienda ed il successivo acquisto o conferimento, od altre soluzioni ancora, si potrebbe dire, “più esotiche”. Una specie di traduzione all’italiana del Chapter 11 statunitense (precisamente Chapter 11, Title 11, United States Bankruptcy Code) che contrapposto al Chapter 7 (fallimento in senso stretto) costituisce oltreoceano una procedura comune. E in realtà l’idea è buona, molto buona, ma richiede che sia metabolizzata non solo giuridicamente, ma anche dall’intero tessuto economico. Dalle nostre parti il concordato preventivo, in una qualsiasi delle sue forme, e sono tante, è nell’immaginario collettivo, anche professionale, più o meno sinonimo di fallimento, fatte salve alcune differenze puramente tecniche e poco sostanziali. Troppi ancora la vedono come una liquidazione concorsuale su proposta del debitore, anziché governata dalla legge e dal curatore. Ed è per questo che al momento il concordato, in continuità cosiddetta giuridica, di fatto non funziona. Semplicemente nessuno ci crede.

I clienti, su indicazione talvolta dei loro professionisti, tendono a cambiare fornitore, se quello originario entra in procedura. Non si sa mai che ti revochino l’operazione, dice loro il professionista (impreparato ???). Se rimangono, sapendo di essere importanti, chiedono sconti o condizioni di pagamento straordinari, che talvolta compromettono il piano, o perlomeno lo incrinano.

I fornitori, a loro volta, ci pensano due volte prima di proseguire con le forniture. Del loro credito “antecedente” non sanno ancora cosa ne sarà e si sentono chiedere di fornire ancora. “Potrei anche farlo”, pensano, “ma la merce allora da oggi sarà più cara, ed il pagamento deve essere immediato. La prededuzione? Non so cos’è ed in ogni caso i “soldi in mano” sono la miglior prededuzione del mondo”.

Le banche, per quanto la circolare n. 139 di Banca d’Italia sin dal 1991 preveda nella definizione delle categorie di censimento dei rischi anche i “finanziamenti a procedure concorsuali”, non ci pensano neppure a mantenere l’operatività quando il loro cliente, il debitore, entra in procedura. L’intervento in modifica del febbraio scorso alle circolari n. 139/1991 e n. 272/2008 poco ha risolto, anzi niente, dal punti di vista pratico. L’esenzione dai reati di bancarotta che l’art. 217bis L.F. prevede e la prededuzione assegnata a chi eroghi nuova finanza ai sensi dell’art. 182quinquies L.F. non hanno cambiato nulla. Non esiste un prodotto o una forma tecnica di finanziamento studiata per chi entra in procedura e il sistema che oggi finanzia poco volentieri anche chi è in bonis, di certo non lo fa con chi è in default, per quanto in condizioni protette. O perlomeno lo fa molto raramente ed in condizioni del tutto eccezionali.

Un quadro quindi un po’ desolante, in cui il fabbisogno finanziario per il risanamento tende ad esplodere perlomeno nel breve termine. Nel contempo il piano vacilla, e l’attestatore deve nell’applicazione degli stessi test essere estremamente prudente.

Martedì verificheremo la questione anche nei numeri, per completezza. Ma il quadro è questo, ed è poco confortante.