27 Aprile 2015

Affari di famiglia

di Michele D’Agnolo
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Secondo una recente indagine di un importante quotidiano finanziario nazionale dalle pagine color salmone, del quale non posso fare il nome, l’85% delle imprese italiane sono a gestione familiare. No, sfortunatamente non si tratta della Gazzetta dello Sport.

Servendo le imprese familiari come professionisti, conosciamo molto bene vizi e virtù di questi consessi. E, comunque, non mancano iniziative di indagine da parte degli studiosi. Sono innumerevoli i convegni e le conferenze che si tengono annualmente sul tema. Anche la letteratura sta diventando imponente: ad una prima indagine su una nota libreria online ho trovato quasi una cinquantina di titoli dedicati al tema, analizzato in base alle più varie sfaccettature. Organizzazione, marketing, psicologia, fiscalità dell’impresa familiare sono temi ormai abusati. Esistono esperti specializzati per seguirne ogni problematica.

Anche molti studi professionali italiani sono a gestione familiare. Eppure, rispetto ad essi non esiste neppure mezza riga sul tema. Nessuno ne parla. Non un convegno. Non una conferenza. Non un volume. Forse è un tema talmente politicamente scorretto da risultare al di fuori della portata di qualsiasi studioso? O forse ci sono argomenti così delicati e complessi che anche la scienza con i suoi strumenti si rivela inadeguata e deve fare un passo indietro?

Eppure anche in uno studio professionale la contemporanea presenza di legami affettivi o di sangue arricchisce il quadro relazionale in un modo straordinario e, contemporaneamente, lo rende estremamente volatile e complesso.

È bellissimo condividere la gioia di un successo professionale costruito insieme al nostro coniuge o a un nostro figlio. È devastante dover affrontare un problema professionale con una persona che un secondo dopo l’inizio della discussione solleverà un problema di rapporti familiari.

Capiamo subito che il rapporto tra professioni e legami familiari non è agevole. Intere categorie professionali sono state accusate di nepotismo e di scarsa meritocrazia per ammettere troppo spesso i figli dei professionisti all’interno della loro categoria. E se i figli fossero effettivamente bravi, poco male. A loro è sostanzialmente proibito fare la professione dei genitori, altrimenti si sentiranno sempre dire che non era farina del loro sacco. Meglio fare qualcos’altro o comunque farlo altrove se volete potervene sentire legittimamente orgogliosi e senza tema di smentita.

In qualche studio, come nell’esercito americano, vige il “codice rosso”. Per statuto è vietato ai soci di portare all’interno della compagine mogli, mariti, figli, nipoti. Saggezza tranciante. Anche in questi casi però non è detto che il problema sia completamente risolto, perché spesso i nostri partner sentimentali, anche se non sono sulla carta intestata, sono dei veri e propri soci ombra dello studio. Se le nostre serate sono grame, anche le nostre giornate di lavoro saranno scarsamente produttive. E l’appoggio, la sopportazione e l’avversione di un partner nei confronti della nostra avventura lavorativa fanno una differenza enorme nella nostra qualità della vita e nella nostra motivazione. È quello che chiamo il principio di Yoko Ono. Chi fu a far litigare i Beatles se non la moglie gelosa della bravura e dell’unicità del genio di John Lennon, fino a convincerlo a lasciare la compagine di “inetti” con la quale si dilettava a suonare e cantare?

Inoltre esiste il problema degli amanti, che l’esistenza del codice rosso potrebbe rendere ancora più interessante, in quanto non farebbe che aumentarne il sapore trasgressivo. Come quel collega che passeggiando dopo cena sotto lo studio vide una luce provenire da una delle stanze dei praticanti. Dopo aver temuto la presenza di ladri, si emozionò, riconoscendo le ombre dei due giovani aspiranti professionisti, credendo che fossero ancora su a lavorare. Finalmente ho trovato qualcuno che ha la mia stessa vocazione, pensò in cuor suo. Poi, salendo per complimentarsi, cominciò a sentire il rantolare mugolante di un focoso amplesso, fugacemente consumato tra la scrivania e il morbido tappeto dei fascicoli arretrati non ancora archiviati di una nota banca dati cartacea.

I legami affettivi e di sangue obnubilano la mente e ci rendono fortemente irrazionali. Generalmente, ad esempio, tendiamo a concedere ai nostri cari comportamenti organizzativi che mai avremmo permesso ad un soggetto indipendente. Pensate ai coniugi più o meno imboscati nei nostri studi, che hanno un incarico ufficiale però vanno e vengono a seconda delle commissioni familiari da svolgere. Quando la persona serve ai clienti o ai colleghi sarà sicuramente altrove.

E allora le colleghe si chiederanno come mai quando il loro figlio sta male deve restare fuori di scuola e loro devono rimanere a completare le pratiche, mentre la moglie del capo va e viene a piacimento. E che dire del cugino ingiustamente licenziato dall’industria del paese. Un bravo ragazzo, ottimo tornitore metalmeccanico, che teniamo come factotum per fargli un favore. In effetti in studio c’è poco da tornire. Forse qualche lampadina da cambiare ogni tanto. Il nostro bravo operaio, a livello amministrativo è talmente brocco che se pensiamo a quanta demotivazione porta la sua inutile presenza, ci converrebbe fargli direttamente un bonifico purché si astenesse dal frequentare lo studio.  

L’ingresso e la permanenza dei figli nello studio familiare è argomento altrettanto complesso. Il rampollo di famiglia infatti può essere soltanto in due maniere: o è troppo rampante o è troppo pollo.

In entrambi i casi fa danni in studio e quindi sarebbe meglio scegliesse un’altra professione o, almeno, un altro studio. E il fatto di proibirglielo, ai figli, non fa che ingolosirli maggiormente. Forse l’unico sistema per evitare che arrivino in studio è quello di imporgli invece di farlo.   

Prendiamo la giovane bocconiana, ambiziosa e preparatissima, catapultata con le sue metodologie razionali di management in uno studio di provincia, che si accorge che papà e lo zio lavorano ancora come negli anni ‘70. Vecchi impiegati che si autogestiscono in totale anarchia con costi azienda da prima repubblica. Uso dell’informatica all’età della pietra. Ciascun socio ha una visione completamente diversa del business.

Una concezione del rischio professionale legata allo stellone e alla speranza di un condono. Una attenzione all’organizzazione pari a zero, anzi la si vive come un orpello. Ce la farà la nostra valente collega a cambiare la cultura di questo studio o sarà la cultura di questo studio a cambiare lei? Prevediamo per la ragazza molte gastriti ed esaurimenti nervosi.

E che dire del giovinastro che ha passato l’università da un festino all’altro, studiando per sentito dire. Passando gli esami a rimbalzo. Laureato con il minimo dei voti, un attimo prima che gli esami andassero in prescrizione. Una sagoma. Divertente, creativo, pieno di amici e di hobbies. Ma anche demotivato, inconcludente, totalmente inaffidabile.

Eppure, in base alla legge dello scarrafone, per mammà è il miglior praticante del mondo. Un vero e proprio Luca Pacioli in erba (con ogni probabilità essiccata e fumata). Un principe del foro (meglio non indagare oltre). Un luminare della medicina. L’ingegnere dell’atomica a pedale.

Pensate che fatica per tutto lo staff, gestire uno che viene a studio quando gli comoda e lascia tutte le pratiche a metà.

I dipendenti dello studio dovranno fare quadrato come tanti 007 per intercettare le pratiche affidategli e svolgerle senza che la madre se ne accorga, riportandole come se fossero ascrivibili al cocchino.

Guai attentare all’orgoglio di mamma. Sarebbe una guerra persa in partenza. Meglio farlo subito partner, così almeno raggiunge subito il suo livello di inutilità. Gli diamo una stanza tutta sua così quando fa i giochi elettronici a metà mattina almeno non disturba gli altri.

Spesso i figli naturali entrano in competizione con i figli professionali. La differenza di età tra un professionista e il proprio figlio, soprattutto in passato, era troppo lunga rispetto alla molto più rapida velocità di sviluppo dello studio. E quindi, in attesa dell’arrivo del figlio naturale ancora parcheggiato al liceo o all’università, i nostri professionisti hanno allevato, cresciuto e piazzato dentro lo studio uno o più figli professionali. Che si credevano professionalmente figli unici. Salvo scoprire che quel posto, qualche anno dopo, serviva al figlio naturale.

Senza tener conto che, comunque, i due giovani non si sono mai piaciuti né sopportati, anche perché non si sono scelti ma si sono incontrati per caso e proprio nella circostanza di dover mangiare nello stesso piatto.   

Un caso particolare di questo principio è quello del “figliol prodigo” che ritorna in studio da papà dopo un percorso professionale esterno non particolarmente esaltante. Papà ha già un associato, che deve far spazio a qualcuno della cui professionalità non è affatto convinto.

Papà spinge e chiede spazi e rideterminazione di quote e compensi. La probabilità di uno spin off da parte del figlio professionale è in questi casi di quasi il 100%.

La dimensione dello studio e la spersonalizzazione che induce aiutano grandemente a diluire le storture dello studio familiare. L’inserimento e il percorso carrierale di un giovane in uno studio che ha 7 soci non legati tra loro sarà molto più semplice rispetto a quanto accade in uno studio individuale o con due-tre associati.

E che dire del passaggio generazionale. Ma quale passaggio generazionale, visto che il 95% dei professionisti e delle professioniste non va in pensione ed è invece felice di schiattare sulla scrivania? E così abbiamo tanti “Carli” d’Inghilterra che aspettano benevolmente che venga il loro turno a governare lo studio, mentre altrettante “Elisabette” incartapecorite rimangono impassibili al loro posto. Sembra la pubblicità di una nota marca di whisky, dove la bottiglia andava a chiedere alla botte dormiente se fosse arrivato il momento buono e questo momento non arrivava mai. E intanto i piccoli “William”, principini ereditari imparano a guidare l’elicottero e si scaldano i muscoli ai bordi del campo.

Non di rado i genitori offuscano i figli, anche involontariamente, gestendo la loro permanenza in studio con un cocktail esplosivo di malcelata competizione ed evidente mater/paternalismo.

Avete mai visto crescere una sequoia all’ombra di un grande albero? No, perché il primo sottrae giocoforza visibilità e risorse alla seconda, consentendo soltanto al sottobosco di sopravvivere.

E così a volte i bamboccioni si trovano a desiderare una avventura professionale propria e si staccano anche dopo molto tempo dallo studio dei genitori diventando per la prima volta personalmente e professionalmente adulti talvolta anche ben dopo la cinquantina.

Anche la previa esperienza in uno studio esterno può non essere sufficiente a legittimare il professionista, se la cultura dello studio precedente non è affine a quello parentale.   

E pensate alla gioia di continuare a parlare di lavoro anche la sera, visto che i vostri cari condividono le gioie e le responsabilità della vostra professione. E’ davvero un privilegio vivere la professione H24. Sarà per questo che abbiamo scelto di ricalcare le orme dei nostri genitori.

La professione, noi, l’abbiamo respirata fin da ragazzi. Fino a quasi soffocarne.

Speriamo che la consapevolezza e conoscenza di questi meccanismi aumenti, attraverso uno studio approfondito. Per il bene delle nostre povere famiglie, e dei nostri poveri studi.