14 Ottobre 2016

Lo sport e l’assenza di scopo di lucro

di Guido Martinelli
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Fino al 1996 (più precisamente con l’entrata in vigore dell’articolo 4 del D.L. 485/1996 convertito con la L. 586/1996) tutte le associazioni e società sportive, sia dilettantistiche che professionistiche, dovevano rigidamente rispettare il principio della assenza di scopo di lucro o, più correttamente, dell’obbligo di reinvestire tutti gli utili prodotti (divieto di lucro soggettivo ma non oggettivo).

Dalla citata novella alla L. 91/1981 per le società sportive professionistiche è stato eliminato l’obbligo della natura non profit che ha prodotto anche lo “sbarco” in borsa di alcune di queste.

Il mondo del dilettantismo, invece, fino ad oggi, ha sempre difeso strenuamente questa natura.

La principale motivazione si lega al fatto che si suppone che la crescita possa avvenire, in mancanza di remunerazione dei capitali investiti e, quindi, con la difficoltà a reperirne di nuovi se non per liberalità, attraverso il reinvestimento delle risorse che il movimento produce all’interno dello stesso.

Sintomatica appare l’analisi di come l’indebitamento dei club di calcio sia iniziato con l’abolizione del vincolo sportivo. Infatti, nel passato, il passaggio di un atleta da un club ad un altro, anche per importi considerevoli, rimaneva neutro in termini macroeconomici di movimento sportivo, trattandosi di risorse che rimanevano all’interno del sistema e che obbligatoriamente dovevano essere reinvestite nel suo interno. Il venir meno del vincolo ha liberato risorse che sono state canalizzate nel pagamento degli atleti (e dei loro procuratori) e che, come tali, sono uscite dal sistema impoverendolo nella sua complessità.

La falla non poteva che portare al venir meno del limite dell’assenza di scopo di lucro per il mondo professionistico.

La riflessione, ora, da fare è se non sia giunto il momento che anche il mondo dilettantistico rifletta su tale profilo.

Innanzi tutto due segnali importanti. La proposta di legge n. 3936 presentata dalla deputata Sbrollini (responsabile per lo sport del partito del Presidente del Consiglio dei Ministri) alla Camera dei deputati lo scorso 28 giugno punta a introdurre nell’ordinamento la fattispecie della società sportiva dilettantistica c.d. ordinaria che, a fronte di minori agevolazioni sotto il profilo fiscale, non viene assoggettata al limite della assenza dello scopo di lucro.

Il secondo è dato dall’articolo 6 della L. 106/2016 (legge delega sul terzo settore) che prevede che i decreti delegati, in materia di impresa sociale, dovranno tenere conto di “forme di remunerazione del capitale sociale che assicurino la prevalente destinazione degli utili al conseguimento dell’oggetto sociale” aprendo il varco a forme di dividendi nei limiti previsti per le cooperative a mutualità prevalente.

Ci troviamo, quindi, di fronte a riforme, in alcuni casi già introdotte nell’ordinamento, in altri in itinere in Parlamento, che minano la rigidità dell’assenza dello scopo di lucro anche in forma indiretta nel mondo del terzo settore.

Una ulteriore “spallata” in questa direzione sembra possa venire dal recente codice dei contratti pubblici (D.Lgs. 50/2016).

Ben sappiamo la natura pubblica della grandissima maggioranza degli impianti sportivi italiani e le grosse difficoltà degli enti proprietari a provvedere direttamente alle gestioni con il conseguente affidamento degli stessi alle realtà sportive del territorio, alle quali, in questo ultimo periodo, viene affidato anche l’onere di provvedere alle manutenzioni straordinarie dell’impianto.

Su questo stato di fatto si inserisce la nuova citata disciplina delle concessioni che prevede, al secondo comma dell’articolo 165, che i meccanismi di finanziamento a carico della pubblica Amministrazione non possano essere superiori al: “trenta per cento del costo dell’investimento complessivo comprensivo di oneri finanziari”.

Il reperimento del rimanente settanta per cento, in regime di contribuzione infruttifera a carico del privato, renderà con ogni probabilità quasi impossibile provvedere all’adeguamento e ammodernamento dell’impiantistica sportiva.

Infine un ragionamento va fatto sui compensi ai soci. Nelle organizzazioni di volontariato gli associati non possono ricevere alcuna forma di compenso per attività fatta in favore dell’ente, nelle associazioni di promozione sociale le prestazioni retribuite devono coinvolgere solo una minoranza di associati, nelle sportive, invece, tutti i soci possono essere retribuiti per l’attività svolta, purchè non si realizzi il presupposto del lucro indiretto.

Il comma 6 del D.Lgs. 460/1997 prevede che si considera in ogni caso distribuzione indiretta di utili o di avanzi di gestione: “la corresponsione ai componenti gli organi amministrativi e di controllo di emolumenti individuali annui superiori al compenso massimo previsto dal D.P.R. 645/1994 e dal D.L. 239/1995, convertito dalla L. 336/1995, e successive modificazioni e integrazioni, per il presidente del collegio sindacale delle società per azioni”.

Ma tale limite come si calcola, oggi, con l’abolizione delle tariffe professionali? E, in particolare, come si applica alle associazioni?

Probabilmente è giunta l’ora che anche sulla rigidità dell’assenza di scopo di lucro per le associazioni e società sportive dilettantistiche si inizi a discutere.

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