19 Febbraio 2015

Forma e struttura delle organizzazioni di volontariato

di Guido Martinelli
Scarica in PDF

Continua la rubrica dedicata agli enti non commerciali: nei numeri precedenti abbiamo analizzato le associazioni di promozione sociale, soffermandoci sugli aspetti civilistici e sui profili di responsabilità di coloro che agiscono in nome e per conto delle associazioni. Oggi proseguiamo l’approfondimento esaminando le forme e le strutture più frequentemente riscontrabili nelle associazioni di volontariato.


 

Dopo aver in sintesi delineato gli aspetti costitutivi delle associazioni di promozione sociale, dedichiamo ora l’analisi all’altro grande contenitore del non profit italiano: le associazioni di volontariato.

La legge quadro n. 266 dell’11.08.1991 ha introdotto nell’ordinamento giuridico italiano la figura delle organizzazioni di volontariato, principalmente caratterizzate dalla finalità solidaristica e dalla prevalenza delle prestazioni personali, volontarie e gratuite degli aderenti.

Principalmente la disciplina ha posto la sua attenzione sulla figura del volontariato e su quella del sodalizio che ne organizza l’attività. Dopo un generico riconoscimento al valore sociale del volontariato, l’art. 2 della norma in esame ne disegna i contorni.

Gli enti che intendono qualificarsi organizzazioni di volontariato devono necessariamente rispettare i vincoli formali e sostanziali imposti dalla citata L. n. 266/1991 e dalle relative leggi regionali di attuazione.

Il comma 1 dell’art. 2 della L. n. 266/1991 definisce l’“attività di volontariato” come quella prestata in modo personale, spontaneo e gratuito, tramite l’organizzazione di cui il volontario fa parte, senza scopo di lucro, anche indiretto, ed esclusivamente per fini di solidarietà. Il seguente comma 2 specifica che l’attività di volontariato non può essere retribuita in alcun modo, nemmeno dal beneficiario; al volontario possono essere solo rimborsate le spese effettivamente sostenute per l’attività prestata entro limiti preventivamente stabiliti dalle organizzazioni stesse. È, inoltre, incompatibile con la qualità di volontario qualsiasi forma di rapporto di lavoro subordinato o autonomo e con ogni altro rapporto di contenuto patrimoniale con l’organizzazione di appartenenza.

Il Legislatore ha statuito che possono assumere la forma giuridica che ritengono più adeguata al perseguimento dei propri fini, salvo il limite di compatibilità con lo scopo solidaristico.

A fronte di tale virtuale libertà di forma, le organizzazioni trovano un limite naturale nel costituirsi come società di persone ovvero di capitali. Questo in virtù dell’art. 2247 Cod. Civ., il quale prevede, come finalità essenziale del contratto di società, “l’esercizio in comune di un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili”.

Sul punto, è intervenuto il Ministero delle Finanze (Circolare n. 3 del 25.02.1992) confermando che “la compatibilità con lo scopo solidaristico, la previsione di criteri di escludibilità degli aderenti e, soprattutto, la necessità dell’assenza di fini di lucro rende impossibile per le organizzazioni di volontariato … la costituzione in forma societaria e chiarendo che l’esclusione riguarda anche le società cooperative, in quanto “dalla partecipazione (…) i soci traggono comunque una utilità incompatibile con le finalità solidaristiche della legge n. 266″.

Ne deriva, pertanto, che l’unico ente collettivo di fatto ammesso a costituirsi sotto forma di organizzazione di volontariato è l’associazione, riconosciuta o non.

Il comma 3 dell’art. 3 della L. n. 266/1991 stabilisce, poi, che lo statuto o gli accordi degli aderenti debbano espressamente contenere specifiche clausole.

Tra le disposizioni statutarie devono emergere espressamente i seguenti elementi: l’assenza di fini di lucro; la democraticità della struttura; l’elettività e la gratuità delle cariche associative; la gratuità delle prestazioni fornite dagli aderenti; i criteri di ammissione e di esclusione di questi ultimi, i loro obblighi e diritti; l’obbligo di formazione del bilancio, dal quale devono risultare i beni, i contributi o i lasciti ricevuti, nonché le modalità di approvazione dello stesso da parte dell’assemblea degli aderenti; infine il rispetto degli obblighi di devoluzione ai sensi dell’art. 5, comma 4, L. n. 266/1991.

L’adeguamento di ogni associazione di volontariato alle prescrizioni normative in merito al contenuto delle disposizioni statutarie, costituisce un presupposto indispensabile e indefettibile per l’iscrizione nei registri regionali e provinciali del volontariato.  Una ristretta elaborazione giurisprudenziale ha ammesso che tale adeguamento non costituisce un limite assoluto e rigoroso per l’autonomia contrattuale dei soci aderenti; secondo la stessa pronuncia difatti ai fini dell’iscrizione nei relativi albi, le associazioni devono regolarsi con statuti le cui disposizioni non siano “incompatibili” sul piano sostanziale con i principi della legge stessa. Ciò in sostanza può consentire delle divergenze di carattere formale, in ragione del fatto che alcuni requisiti richiesti, ad esempio quello della “democraticità” della struttura, presentano ampi margini di interpretazione e di applicazione.

Il comma 4 dell’art. 3 della L. n. 266/1991 stabilisce che le organizzazioni di volontariato, nei limiti necessari per il loro regolare funzionamento oppure occorrenti a qualificare o specializzare l’attività, possano anche assumere lavoratori dipendenti o avvalersi di prestazioni di lavoro autonomo, purché “non associati”.

Al fine di tutelare i volontari, il legislatore ha previsto l’obbligo di assicurare la loro attività contro infortuni, malattia e responsabilità civile verso terzi. Le modalità operative, relative all’obbligo di assicurazione, sono state fissate con decreto che dispone che le assicurazioni possono essere stipulate in forma collettiva ovvero in forma numerica e le organizzazioni sono obbligate a tenere il registro dei volontari “attivi”. È di fondamentale importanza, infine, osservare che la legge quadro non ha indicato particolari ed esclusivi settori di intervento (come invece è previsto per le Onlus nel comma 1 dell’art. 10 del D. Lgs. n. 460/1997), lasciando in tal senso ampia libertà alle Regioni e alle Province autonome in fase di attuazione della normativa nazionale.