9 Settembre 2019

La testimonianza resa nel processo penale ha valore indiziario

di Luigi Ferrajoli
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La scheda di FISCOPRATICO

L’articolo 7 D.Lgs. 546/1992 stabilisce che, nel processo tributario, non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale.

Tale norma trova il proprio fondamento nella natura del processo tributario, prevalentemente scritto e documentale.

In ogni caso, il summenzionato principio non implica l’impossibilità di utilizzare, ai fini della decisione, le dichiarazioni che gli organi dell’Amministrazione finanziaria sono autorizzati a richiedere anche ai privati nella fase amministrativa di accertamento e che, proprio perché assunte in sede extraprocessuale, rilevano quali elementi indiziari che possono concorrere a formare, unitamente ad altri elementi, il convincimento del giudice.

Tale principio è stato ribadito dall’ordinanza n. 17536 emessa dalla Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, in data 28 giugno 2019.

Nel caso di specie, il contribuente aveva proposto ricorso avverso l’avviso di accertamento notificato dall’Agenzia delle entrate in seguito alla rideterminazione del reddito per l’anno 2003 ai fini Irpef, Irap ed Iva, in cui era evidenziato che con sentenza del Tribunale di Como, non definitiva, il medesimo contribuente era stato condannato per i reati di falso in scrittura privata ex articolo 485 c.p. e truffa ex articolo 640 c.p., per avere indotto una cliente a pagare il costo della pubblicità relativa alla cessione in franchising di una fantomatica agenzia di viaggi riconducibile al contribuente, ma in realtà inesistente.

Il ricorso, proposto in sede tributaria, veniva accolto dalla CTP competente; l’Ente impositore decideva di impugnare il provvedimento avanti alla Commissione Tributaria Regionale, la quale riformava la decisione dei giudici di primo grado in forza delle prove acquisite nel processo penale, vagliate dal giudice tributario.

Avverso tale decisione il contribuente proponeva ricorso avanti alla Suprema Corte eccependo, tra i vari motivi, la mancanza sia di un autonomo vaglio critico delle indicazioni degli elementi di prova sottesi alla decisione di accoglimento dell’appello proposto dall’Ufficio da parte del giudice di secondo grado, che avrebbe uniformato il proprio convincimento proprio sulla intervenuta statuizione penale, facendo semplicemente un’illusoria applicazione del principio del divieto di utilizzare testimonianze nel processo tributario, ai sensi dell’articolo 7 D.Lgs. 546/1992.

La Corte di Cassazione ha ritenuto tale motivo infondato sulla base di un consolidato orientamento giurisprudenziale.

In particolare, la Corte di Cassazione ha ribadito (Cassazione civile n. 16262/2017) che in materia di contenzioso tributario, nessuna automatica autorità di cosa giudicata può essere attribuita alla sentenza penale irrevocabile, di condanna o di assoluzione, in materia di reati fiscali, ancorché i fatti esaminati in sede penale siano gli stessi che fondano l’accertamento degli Uffici finanziari, dal momento che nel processo tributario vigono i limiti in tema di prova, ai sensi dell’articolo 7 D.Lgs. 546/1992 e sono ammissibili le presunzioni semplici, di per sé non adeguate a supportare una pronuncia penale di condanna. Da ciò deriva che l’imputato assolto in sede penale, anche con formula piena, può essere ritenuto responsabile fiscalmente qualora l’atto impositivo risulti fondato su validi indizi, insufficienti per un giudizio di responsabilità penale, ma adeguati, fino a prova contraria, nel giudizio tributario.

A tale proposito i giudici di legittimità hanno precisato che “il giudice tributario non può limitarsi a rilevare l’esistenza di una sentenza penale definitiva in materia di reati fiscali, recependone acriticamente le conclusioni assolutorie ma, nell’esercizio dei propri poteri di valutazione della condotta delle parti e del materiale probatorio acquisito agli atti (articolo 116 c.p.c), deve procedere ad un apprezzamento del contenuto della decisione, ponendolo a confronto con gli altri elementi di prova acquisiti nel giudizio” (Cassazione civile n. 28174/2017).

Tuttavia, secondo la Corte, nella fattispecie de qua la CTR adita avrebbe affermato con un giudizio autonomo ed indipendente dalla sentenza penale, come il “resistente avesse determinato un progetto criminale atto a stipulare contratti a nome di un terzo soggetto da utilizzare a proprio vantaggio, determinando un profitto illecito oggetto appunto dell’accertamento fiscale”.

Sulla base anche di tale considerazione, la Corte ha rigettato il ricorso proposto dal contribuente condannandolo al pagamento delle spese di lite in favore dell’Ente.

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