15 Febbraio 2016

La Cassazione chiude la vicenda Dolce & Gabbana

di Luigi Ferrajoli
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Con la sentenza n. 43809/2015, la Corte di Cassazione penale, pronunciandosi definitivamente sulla nota vicenda Dolce & Gabbana, ha assolto i due stilisti milanesi dall’accusa di omessa dichiarazione di cui all’art.5, D.Lgs. n.74/00 con formula piena perché il fatto non sussiste.

I giudici di legittimità, con la decisione in commento, offrono importanti spunti di riflessione sia in materia penale sia in ambito tributario soffermandosi, in particolare, sul concetto di residenza fiscale e sui presupposti di fatto che realizzano fenomeni di esterovestitizione.

Secondo l’impianto accusatorio, tramite l’operazione di riorganizzazione degli assetti societari della holding italiana D&G S.r.l, gli imprenditori avrebbero sottratto ad imposizione componenti positivi di reddito derivanti dallo sfruttamento del marchio di cui gli stilisti erano titolari al 50% ciascuno.

Nello specifico, l’operazione prevedeva la costituzione di due nuove società lussemburghesi, la GADO S.a.r.l, a cui veniva trasferita la titolarità dei suddetti marchi, e la Dolce & Gabbana Luxemburg S.a.r.l controllante della GADO al 100%. L’operazione prevedeva che la Gado S.a.r.l., a sua volta, concedesse il diritto di sfruttamento del marchio dietro pagamento di royalties alla Dolce & Gabbana S.r.l., società anch’essa controllata dalla Dolce & Gabbana Luxemburg S.a.r.l..

La circostanza che la GADO S.a.r.l. non avesse immediatamente assunto personale dipendente e che la stessa, inoltre, operava solo ed esclusivamente secondo le direttive impartite dalla capogruppo italiana, ha indotto gli organi di Polizia Tributaria e il Fisco a considerare la controllata estera come una società esterovestita, residente nel territorio lussemburghese al solo scopo di conseguire un notevole risparmio d’imposta.

La Corte di Cassazione, nel ripercorre i criteri di determinazione della residenza fiscale contenuti nell’art.73, co.3, T.U.I.R. si è soffermata sul concetto di direzione effettiva, statuendo che qualora ci si limiti ad identificare la sede della società estera controllata esclusivamente in base al luogo dal quale partono “gli impulsi decisionali”, si giungerebbe a “conclusioni aberranti”.

I giudici rilevano che la Corte di Giustizia Europea, in tema di esercizio della libertà di stabilimento, ha avuto modo di chiarire che, “a un soggetto passivo che ha la scelta tra due operazioni, la sesta direttiva non impone di scegliere quella che implica una maggiore imposta” e, per l’effetto, che non può considerarsi indebito il vantaggio fiscale ottenuto dall’imprenditore che sfrutta una legislazione fiscale più conveniente.

La Suprema Corte, dopo aver ripercorso il concetto di stabile organizzazione, afferma che sussiste abuso del diritto ogni qual volta ci si trovi di fronte a strutture giuridiche prive di sostanza economica ovvero “costruzioni di puro artificio volte ad abusare indebitamente a fini fiscali del diritto di libertà di stabilimento. […] Costruzione artificiosa e indebito vantaggio fiscale vanno di pari passo: il vantaggio fiscale non è indebito sol perché l’imprenditore sfrutta le opportunità offerte dal mercato o da una più vantaggiosa legislazione fiscale (ma anche contributiva, previdenziale), lo è se è ottenuto tramite situazioni non aderenti alla realtà, di puro artificio che rendono conseguentemente indebito il vantaggio fiscale”.

La Cassazione ritiene che i giudici di prime cure abbiano omesso di considerare le valide ragioni sottostanti all’operazione di riorganizzazione aziendale e che, pertanto, nel caso di specie non si è concretizzata nessuna attività artificiosa finalizzata ad ottenere l’indebito vantaggio fiscale.

In altri termini, non essendovi attività artificiosa per il Collegio non può ricorrere abuso del diritto, motivo per cui la società titolare della proprietà dei marchi è stata ritenuta una società realmente operativa.

In ultimo, il Collegio ha avuto modo di precisare che il reato di omessa dichiarazione ex art.5 D.Lgs. n.74/00 integra una condotta caratterizzata dal dolo specifico per il quale occorre dimostrare la volontà di mettere in pratica l’operazione nella consapevolezza di violare divieti di natura fiscale al precipuo fine di evadere le imposte, sottolineando che tale attività d’indagine deve eseguirsi secondo le regole del procedimento penale e non, invece, tramite le presunzioni tipiche del processo tributario.