14 Settembre 2023

Il risarcimento del danno per utilizzo di marchio contraffatto

di Luigi Ferrajoli
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La scheda di FISCOPRATICO

L’articolo 125 del Codice della Proprietà Industriale (C.P.I.) accorda la possibilità di ottenere il risarcimento del danno in caso di accertata contraffazione del marchio, tenuto conto delle conseguenze economiche negative patite dal titolare del diritto violato, compreso il mancato guadagno, oltre ai benefici realizzati dall’autore della violazione e, nei casi appropriati, agli elementi diversi da quelli economici, come il danno morale arrecato al soggetto leso.

A differenza di quest’ultimo, il danno patrimoniale risarcibile consiste nel danno emergente e nel lucro cessante, laddove il primo (danno emergente) comprende tutte le spese sostenute dal danneggiato per promuovere il segno distintivo e rese inutili dalla violazione (come le spese pubblicitarie), nonché quelle affrontate a causa della contraffazione (si considerino, a titolo esemplificativo, le spese di accertamento della contraffazione nonché quelle per l’attività di investigazione e di vigilanza e per gli investimenti pubblicitari effettuati dal titolare del diritto di privativa e vanificati dall’attività di contraffazione (Tribunale di Bari, Sez. Spec. Impresa, 18.6.2018 e Tribunale di Milano, 30.1.2009), mentre il secondo (lucro cessante) coincide con il mancato profitto del titolare del diritto violato.

La recente giurisprudenza ha confermato che il danno da lucro cessante consiste nel “mancato guadagno o profitto del titolare, dato dalla differenza tra i flussi di vendita che lo stesso avrebbe avuto senza la contraffazione e quelli che ha effettivamente ricevuto” (Cassazione n. 14593/2023). Al fine di quantificare il guadagno perso, i giudici di legittimità hanno preso le mosse dal c.d. “utile marginale”, costituito dalla “differenza tra il ricavo che sarebbe derivato da unità di prodotto aggiuntive, rispetto a quelle in concreto commercializzate, ed il costo marginale, comprensivo di tutti i costi che sarebbero stati sostenuti per produrre quelle unità aggiuntive”.

Il succitato articolo 125, comma 1, C.P.I. consente, inoltre, tramite un rimando agli articoli 1223, 1226 e 1227 cod. civ., il ricorso alla valutazione equitativa del danno non suscettibile di essere provato nel suo esatto ammontare, nel caso in cui risulti difficile quantificare gli effetti pregiudizievoli della condotta contraffattiva.

Più nel dettaglio, il secondo comma dell’articolo 125 C.P.I. detta una regola speciale di liquidazione equitativa, consentendo che il giudice liquidi il danno sulla base del “criterio del giusto prezzo del consenso o della giusta royalty, vale a dire del compenso che il contraffattore avrebbe pagato al titolare se avesse chiesto ed ottenuto una licenza per utilizzare l’altrui privativa industriale”, il quale opera come ulteriore “elemento di valutazione equitativa “semplificata” del lucro cessante e come fissazione di un limite minimo o residuale di ammontare del risarcimento, voluto dal legislatore a garanzia della effettività della compensazione” (Cassazione n. 14593/2023).

La pronuncia in parola ritiene che tale criterio costituisca “elemento di semplificazione nella liquidazione del danno”, sicché il giusto prezzo del consenso risulta per lo più sempre accertabile con indagini di mercato sui compensi negoziati tra imprese per privative analoghe.

Va da sé, che per determinare l’entità del pregiudizio subito dal titolare del marchio occorre considerare, non soltanto il tradizionale pregiudizio di tipo patrimoniale, ma anche quello morale, come il danno all’immagine commerciale dell’imprenditore, o la perdita di investimenti pubblicitari, da ancorare al parametro dei benefici ricavati dal contraffattore (indipendentemente dalla retroversione degli utili, di cui al comma 3 dell’articolo 125 C.P.I., che può essere chiesta in alternativa al risarcimento del lucro cessante o nella misura eccedente tale risarcimento), in un’ottica sia indennitaria che riparatoria, giustificata dall’obiettivo di tutela di una corretta attività di mercato. Si tratta, in buona sostanza, di una regola speciale nell’ambito del rimedio risarcitorio, di norma volto a compensare per equivalente – attraverso un pagamento commisurato alla perdita sopportata – chi ha subito la violazione.

È evidente, infine, che tali parametri devono essere presi in considerazione anche ai fini della liquidazione equitativa in una somma “globale”, in cui non è necessario specificare l’incidenza dei singoli elementi presi in esame per la quantificazione del dovuto.