3 Novembre 2014

Il criterio comparativo negli accertamenti di valore impone l’allegazione degli atti

di Nicola Fasano
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Sugli accertamenti di valore ai fini dell’imposta di registro e delle imposte ipocatastali, gli Uffici procedono in ordine sparso. Come noto, l’art. 51 co. 3, del d.P.R. 131/86, prevede espressamente che l’Amministrazione finanziaria possa rettificare il valore degli immobili (si tratta soprattutto di terreni edificabili) sulla base dei valori indicati in altri atti, risalenti a non più di tre anni prima, aventi ad oggetto immobili con caratteristiche analoghe.

Il successivo art. 52, co. 2-bis del d.P.R. 131/86, aggiunto dall’art. 4 del D. Lgs. n. 32/2001, in modo sin troppo chiaro stabilisce che se la motivazione dell’avviso di rettifica fa riferimento ad un altro atto non conosciuto né ricevuto dal contribuente questo, a pena di nullità, deve essere allegato all’atto che lo richiama, salvo che quest’ultimo non ne riproduca il contenuto essenziale.

Si tratta di una diposizione introdotta all’indomani dell’entrata in vigore dello Statuto del contribuente (L. 212/00) che fra l’altro, all’art. 7 prevede, in linea generale, che se nella motivazione degli atti dell’amministrazione finanziaria si fa riferimento ad un altro atto, quest’ultimo deve essere allegato.

L’esperienza professionale, tuttavia, insegna che gli Uffici più “diligenti” hanno cura di allegare copia degli atti richiamati, cancellando i dati sensibili in essi contenuti, altri Uffici riportano gli stralci più significativi degli atti richiamati, ed altri Uffici ancora, quelli più “sbrigativi”, si limitano ad indicare gli estremi identificativi degli atti richiamati e dei relativi immobili, senza riportarne le parti più importanti né tanto meno allegare alcunché.

Ebbene, dinanzi ad un quadro normativo, una volta tanto, così chiaro è evidente come gli accertamenti compartivi a cui non siano allegati gli atti richiamati, o che, non ne riportino gli stralci più significativi siano affetti da un vizio insanabile: la nullità.

Stupisce, invece, riscontrare come un filone giurisprudenziale della Corte di Cassazione “tenga in vita” questi accertamenti per il solo fatto che riportino gli estremi degli atti utilizzati ai fini della rettifica, poiché, secondo tale orientamento, ciò consentirebbe comunque al contribuente di attivarsi per chiederne copia in modo da impostare conseguentemente la propria difesa (si veda da ultimo l’Ordinanza della Cassazione n. 12741/2014 ove a supporto di tali conclusioni viene peraltro richiamato una precedente pronuncia del 2000, quando cioè ancora non era stato introdotto il citato comma 2-bis dell’art. 52, d.P.R. 131/86).

La presenza di tale filone giurisprudenziale, evidentemente, sprona gli Uffici a coltivare il contenzioso fino all’ultimo grado di giudizio, nonostante altra parte della giurisprudenza di legittimità (si veda da ultimo l’ordinanza della Cassazione n. 3262/2013), cogliendo nel segno, ha avuto modo di osservare come in base al contesto normativo sopra delineato, l’Ufficio non si può esimere dall’allegare gli atti richiamati (o quanto meno dal riportare le parti più rilevanti degli stessi).

Del resto tale obbligo, oltre a discendere da una inequivocabile prescrizione normativa, dovrebbe rappresentare anche una maggiore garanzia per il contribuente già in una posizione impari rispetto a quella dell’Ufficio che, evidentemente, sull’enorme mole di atti registrati può “scegliere” quelli a lui più congeniali ossia quelli che portano ad un maggiore recupero di imposta. Senza dimenticare, inoltre, che l’accertamento di valore utilizzato ai fini del registro è molto spesso utilizzato “a cascata” dall’Amministrazione finanziaria anche per il successivo accertamento della maggiore plusvalenza in capo al venditore (in modo del tutto opinabile, si veda “Nessun automatismo per l’accertamento delle plusvalenze immobiliari”).

Non resta che augurarsi che la Suprema Corte, nelle prossime sentenze sul tema, magari con l’autorevolezza di una pronuncia a Sezioni Unite, chiarisca una volta per tutte la vicenda riabilitando il principio della “certezza del diritto”.