23 Dicembre 2016

Il trasporto di beni nella triangolazione secondo la giurisprudenza

di Marco Peirolo
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In un precedente intervento, il tema del soggetto che cura il trasporto dei beni all’estero nell’ambito della triangolazione nazionale con cliente finale di altro Stato UE o extra-UE è stato analizzato richiamando la posizione, assai rigorosa, dell’Amministrazione finanziaria, che consente al cessionario italiano di stipulare il contratto di trasporto soltanto su mandato e in nome del cedente, fermo restando che il vettore deve ritirare i beni presso il cedente stesso per la successiva consegna diretta al destinatario non residente (“Il trasporto dei beni all’estero nella triangolazione nazionale”).

È il caso, però, di osservare che la giurisprudenza è pervenuta ad una diversa conclusione, privilegiando l’aspetto sostanziale dell’operazione in triangolazione.

In un primo tempo, anche la Suprema Corte aveva sposato l’orientamento più restrittivo, secondo il quale l’esportazione dei beni deve avvenire a cura o a nome del cedente anche se su incarico del cessionario, senza possibilità di inserimento, in tale fase, del cessionario (Cass. n. 22233/2011; Cass. n. 22445/2008; Cass. n. 5065/1998).

Di diverso avviso la giurisprudenza di legittimità più recente, che con un orientamento ormai consolidato ha affermato che, affinché un’operazione triangolare possa qualificarsi come cessione non imponibile, l’espressione letterale “a cura” del cedente va interpretata in relazione allo scopo della norma, che è quello di evitare operazioni fraudolente, quali si verificherebbero se il cessionario nazionale potesse autonomamente (al di fuori, cioè, di un preventivo regolamento contrattuale con il cedente) decidere di inviare i beni in altro Stato membro o al di fuori dell’Unione europea.

Pertanto, non è necessario che il trasporto/spedizione avvenga in esecuzione di un contratto concluso direttamente dal cedente o in rappresentanza di quest’ultimo, essendo essenziale solo che vi sia la prova (il cui onere grava sul contribuente) che l’operazione, fin dalla sua origine e nella sua rappresentazione documentale, sia stata voluta, secondo la comune volontà degli originali contraenti, come cessione nazionale in vista del trasporto/spedizione al cessionario residente all’estero (Cass. n. 14405/2014; Cass. n. 23735/2013; Cass. n. 13331/2013; Cass. n. 14186/2013; Cass. n. 6898/2011; Cass. n. 24964/2010; Cass. n. 4098/2000).

Tali considerazioni sono state ritenute rilevanti, dagli stessi giudici, per giustificare l’applicazione del regime di non imponibilità IVA alle esportazioni cd. “franco valuta”, aventi per oggetto beni già collocati in territorio extracomunitario nel momento in cui la vendita risulta perfezionata.

Nella sentenza n. 23588/2012, ad esempio, la Suprema Corte, sulla scorta del principio espresso nella norma di comportamento AIDC n. 161, ha affermato che la rubrica dell’articolo 8 del D.P.R. n. 633/1972 (cessione all’esportazione) indica la necessaria ricorrenza di un vincolo finalistico tra il trasferimento della proprietà e l’esportazione, ma non anche quella di un’obbligata successione temporale tra i due termini dell’operazione e che, in ogni caso, l’esigenza di garantire la tassazione dei beni nel luogo di consumo richiede solo il carattere definitivo dell’operazione. In pratica, ciò che risulta essenziale – e che la norma persegue al fine di evitare iniziative fraudolente – è, come già anticipato, la prova che l’operazione, fin dalla sua origine e nella relativa rappresentazione documentale, sia stata concepita in vista del definitivo trasferimento e cessione della merce all’estero.

La stessa impostazione è stata adottata dall’Agenzia delle Entrate, che nella risoluzione 94/2013 ha considerato assimilabile al “consignment stock”, sul piano degli effetti, l’invio di beni in territorio extracomunitario in regime doganale “franco valuta” per essere successivamente ceduti al cliente straniero in virtù dell’impegno contrattualmente vincolante assunto ab origine dalle parti. In buona sostanza, i beni, anche se introdotti in un deposito di cui l’operatore nazionale ha la disponibilità in considerazione del contratto di locazione appositamente stipulato, sono vincolati, sin dalla loro esportazione doganale, all’esclusivo trasferimento in proprietà del cliente non residente in relazione alle sue esigenze di approvvigionamento. Nel presupposto, quindi, che il fornitore italiano sia obbligato a vendere i beni esportati, è con il loro prelievo dal deposito per la consegna al cliente che si dà esecuzione alla compravendita e si realizzano i presupposti per inquadrare l’operazione come cessione all’esportazione ai sensi dell’articolo 8, comma 1, lett. a), del D.P.R. n. 633/1972, rilevante ai fini dell’acquisizione dello status di esportatore abituale e della formazione del plafond.

L’interpretazione offerta dall’Amministrazione finanziaria in merito alla locuzione “a cura o a nome del cedente” si pone in contrasto anche con gli arresti della giurisprudenza della Corte di giustizia, volta a riconoscere il trattamento di non imponibilità della cessione interna a prescindere dal soggetto che abbia la disponibilità dei beni durante il trasporto/spedizione a destinazione del cliente finale non residente (causa C-587/10, VSTR; causa C-430/09, Euro Tyre Holding; causa C-245/04, EMAG Handel Eder).

È dunque l’esistenza della triangolazione, desumibile dalla volontà delle parti, che garantisce la tutela del divieto di immissione in consumo in Italia, senza che abbia alcuna rilevanza il soggetto nella cui disponibilità rientrano i beni da inviare in territorio estero.

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