25 Ottobre 2023

Riforma tributaria. I primi commenti alle novità in materia di Ires

di Paolo Meneghetti - Comitato Scientifico Master Breve 365
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È diventata Legge dello Stato il DDL per la Riforma tributaria. Si tratta della L. 111/2023 e ora non resta che attendere i Decreti delegati per l’applicabilità concreta dei principi contenuti nell’impianto normativo di cui sopra. Già oggi, però, è possibile una analisi delle direzioni verso le quali si avvierà la Riforma fiscale e tra queste, spicca, in ambito società di capitali, l’articolo 6 dedicato ai principi e criteri direttivi per la revisione del sistema di imposizione sui redditi delle società e degli enti.

 

All’interno dell’articolo 6, L. 111/2023, vi è un ulteriore punto qualificante, la lettera a) che introduce una riduzione dell’Ires che potrà essere applicata in presenza di talune circostanze. Va subito precisato che a seguito della introduzione di una successiva lettera b) la riduzione dell’Ires non si presenta come un passaggio obbligato bensì come una delle possibili agevolazioni destinate alle imprese che eseguono investimenti. Infatti, la lettera b) dell’articolo 6, L. 111/2023 chiarisce che le società che rinunzieranno a beneficiare della riduzione dell’Ires potranno ottenere vantaggi fiscali rappresentati da un incremento dell’ammortamento sul cespite acquistato (una specie di superammortamento) e per quanto attiene alla seconda condizione (si veda oltre) dell’incremento di personale si parla di una super deduzione del costo sulla falsa riga di ciò che accade oggi in materia di patent box. Tutto ciò come alternativa all’Ires ridotta.

Ma tornando alla disposizione di base (quindi lettera a) dell’articolo 6, L. 111/2023) va precisato che occorre considerare 3 presupposti che dovevano verificarsi congiuntamente (nella previsione originaria della norma), mentre oggi possiamo dire, a seguito delle modifiche apportate in sede referente, che è sufficiente che almeno una delle condizioni d’impiego dell’utile sia verificata.

Le 3 condizioni sono le seguenti:

  1. si proceda a effettuare investimenti. La norma non cita il termine “nuovi” che è stato in questi anni una conditio sine qua non per ottenere agevolazioni, bensì il termine “qualificati” che sembra alludere a una agevolazione preferenziale per investimenti, appunto qualificati, a fronte di una agevolazione più modesta con riferimento a investimenti non qualificati (il termine di paragone potrebbe essere investimenti 4.0 rispetto a quelli privi di tale connotazione);
  2. si proceda a eseguire nuove assunzioni, in tal caso il termine “nuove” lascia suppore che debbano essere assunzioni che incrementino il personale dipendente, e non nuove nel senso di assunzioni che sostituiscano personale dipendente già impiegato. Nella versione definitiva della Legge vi è poi anche un riferimento a schemi stabili di partecipazione agli utili dei dipendenti, quindi, laddove venga previsto contrattualmente che ai dipendenti verrà erogata come surplus una somma correlata all’andamento reddituale, questa modalità di destinazione dell’utile fruirà di una tassazione ridotta;
  3. non si proceda a eseguire distribuzione di utili, nel senso che per la parte di utili attribuiti ai soci non si applica l’agevolazione. La norma, al riguardo, parla anche di utili destinati a finalità estranee all’esercizio di impresa (ad esempio donazioni), e comprende nella nozione di utili distribuiti, anche quelli che si possono presumere distribuiti per effetto dell’accertamento di componenti positivi non dichiarati o componenti negativi inesistenti.

Va subito messo in evidenza un aspetto di originalità della previsione normativa. Mentre nel passato norme analoghe, assegnavano agevolazioni con effetti retroattivi, cioè, verificandosi alcuni presupposti, a consuntivo si poteva beneficiare di riduzioni nel prelievo fiscale, la disposizione contenuta nella L. 111/2023 è costruita in modo diverso. Infatti, la riduzione dell’Ires si applica da un certo periodo d’imposta, e poi essa sarà confermata o meno a seconda che entro il biennio successivo si verifichino i comportamenti virtuosi sopra descritti. Sicché è lecito pensare che laddove tali comportamenti non si verifichino sarà necessario restituire l’agevolazione ricevuta con il versamento delle imposte relativo al secondo anno successivo a quello di applicazione della riduzione. Dalla lettura della norma e da quella della Relazione illustrativa non emerge il tema di eventuali sanzioni da applicare insieme alla restituzione della differenza tra aliquota ridotta e aliquota piena, il che desta più di un dubbio. È evidente che se così fosse, ogni impresa procederebbe alla riduzione della aliquota, ipotizzando che, nella peggiore delle ipotesi dopo un significativo lasso temporale verserà la differenza. In sostanza, così congegnato, il sistema sembra autorizzare una dilazione legittima nel pagamento dell’Ires, dilazione che appare irrazionale e certamente molto onerosa per l’Erario e ciò porta a pensare che la questione verrà fatta oggetto di cautele legislative.

Altro elemento interessante da segnalare è il rapporto tra la disposizione in commento e altre agevolazioni che oggi sono destinate a incentivare con agevolazioni fiscali, i medesimi obiettivi. Non a caso nel periodo finale del citato articolo 6, L. 111/2023 si prevede un necessario coordinamento tra la nuova disciplina e altre disposizioni relative al reddito d’impresa.

In primo luogo, un coordinamento dovrà essere ipotizzato con l’Ace (aiuto alla crescita economica), il cui obiettivo è la capitalizzazione delle imprese (obiettivo condiviso con la norma in commento per uno dei suoi punti, cioè il sopra citato punto 3), mentre in essa è totalmente assente la destinazione dell’utile (investimenti e nuove assunzioni). È difficile ipotizzare la convivenza delle 2 agevolazioni, anche in considerazione del fatto che la precedente mini Ires (articolo 1, comma 28-34, L. 145/2018, che verrà ripresa oltre), norma che presenta significative analogie con l’articolo 6, L. 111/2023 era stata ipotizzata in sostituzione dell’Ace.

In secondo luogo, un coordinamento dovrà essere ipotizzato con la normativa del credito d’imposta per acquisto di beni strumentali nuovi 4.0. Tale normativa, infatti, non è stata abrogata con il 2023 (come invece è accaduto per l’acquisto di beni strumentali non 4.0) ed è destinata a proseguire fino al 2025 (o 30 giugno 2026 per i beni prenotati entro il 2025). Fermo restando che a oggi non sono noti i tempi di effettiva applicazione della Riforma tributaria, è tuttavia lecito pensare che qualche cumulo delle agevolazioni si potrà avere (sempre ovviamente fino a concorrenza del costo del bene), anche perché va tutelato il legittimo affidamento di chi oggi inizia investimenti che magari saranno conclusi fra qualche anno, contando sul credito d’imposta nella misura attuale del 20%.

 

Il rapporto con norme analoghe del passato

Leggendo l’articolo 6, L. 111/2023 è immediato il confronto con la disposizioni di cui all’articolo 1, comma 28 e ss., L. 145/018, la cosiddetta mini Ires, mai entrata in vigore poiché abrogata sul nascere dall’articolo 2, D.L. 34/2019. Anche in quel caso si ipotizzava una riduzione dell’Ires (al 15%) a condizione che l’utile venisse reinvestito in investimenti e costo del personale. La nozione di investimento era definita normativamente come segue: “per investimento si intendono la realizzazione di nuovi impianti nel territorio dello Stato, il completamento di opere sospese, l’ampliamento, la riattivazione, l’ammodernamento di impianti esistenti e l’acquisto di beni strumentali materiali nuovi, anche mediante contratti di locazione finanziaria, destinati a strutture situate nel territorio dello Stato”.

Ma ancora più importante era la precisazione successiva alla definizione di investimento, e cioè che per l’investimento veniva computato per ciascun singolo periodo d’imposta l’ammortare della quota di ammortamento dei beni nuovi acquistati e questo è un passaggio centrale. Il punto dovrà essere chiarito poiché l’articolo 6, L. 111/2023 cita in modo generico il termine “investimento” che potrebbe lasciare intendere che la condizione della agevolazione è correttamente conseguita se a fronte di un utile, per esempio, di 100 (tassato con aliquota ridotta), viene eseguito un investimento di 100, anche se le quote di ammortamento, nel biennio successivo a quello di tassazione ridotta dell’utile, per quello stesso bene ammontassero a 20.

Sul tema delle nuove assunzioni la mini Ires prevedeva la seguente disposizione: “il costo del personale dipendente rileva in ciascun periodo d’imposta, a condizione che tale personale sia destinato per la maggior parte del periodo d’imposta a strutture produttive localizzate nel territorio dello Stato e che si verifichi l’incremento del numero complessivo medio dei lavoratori dipendenti impiegati nell’esercizio di attività commerciali rispetto al numero dei lavoratori dipendenti assunti al 30 settembre 2018, nel limite dell’incremento complessivo del costo del personale classificabile nelle voci di cui all’articolo 2425, primo comma, lettera B), numeri 9) e 14), del codice civile rispetto a quello del periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2018. L’incremento è considerato, limitatamente al personale impiegato per la maggior parte del periodo d’imposta nelle strutture produttive localizzate nel territorio dello Stato, al netto delle diminuzioni occupazionali verificatesi in società controllate o collegate”.

In questo caso il costo del lavoro incrementale di ciascun singolo periodo d’imposta (dei 2 successivi a quello di applicazione della riduzione Ires) sarà il parametro da confrontare all’utile detassato.

Per entrambi i parametri resta fermo che la concorrenza all’utile detassato potrà avvenire sommando il costo sostenuto nel periodo X + 1 a quello del periodo X + 2, considerando periodo X quello nel quale l’utile è stato tassato in maniera ridotta.

 

ESEMPIO

Ipotizzando, ad esempio, una Srl con un reddito imponibile nel 2024 di 100.000 euro, che tassa al 15%. La condizione per “confermare” detta tassazione è che nel biennio 2025/2026 rilevi incrementi complessivi di beni strumentali e/o di costo del lavoro per 100.000, Se la somma dei 2 (o anche uno solo) parametri fosse 44.000 euro la tassazione sarebbe stata pari a 20.040 euro, importo dato dalla somma di 6.600 euro (Ires al 15% sulla “fascia” agevolata di 44.000) e di 13.440 euro (Ires al 24% sul residuo di 56.000 non agevolato).

Dato che la società ha versato 15.000 euro, la differenza, 5.040 dovrà essere riversata, si presume senza sanzioni, a giugno 2027.

Inoltre, se nel biennio 2025/2026 la società avesse distribuito 10.000 euro, dovrebbe restituire la differenza tra 1.500 euro (15%) e 2.400 euro (24%), quindi ulteriori 900 euro.

 

La razionalizzazione dei riallineamenti nella Riforma tributaria

Sempre in tema di revisione della tassazione sulle società e sugli enti commerciali, l’articolo 6, L. 111/2023, lettera c) tocca la questione dei riallineamenti tra valori fiscali (minori) e valori civili (maggiori). L’attuale panorama legislativo è caratterizzato da una certa frammentazione per cui a fronte di un incremento dei valori civili, per qualunque motivo, talvolta sono previsti riallineamenti con certe imposte sostitutive, inoltre, in talune circostanze le imposte sostitutive sono uguali a quelle ordinarie, in altre non è prevista affatto la possibilità di eseguire il riallineamento. Proprio questa frammentazione induce il Legislatore della Riforma a intervenire con l’obiettivo (citato nella Relazione illustrativa) di razionalizzare, semplificare e uniformare i regimi di riallineamento e nel contempo tra realizzi non imponibili e assunzione di valori fiscali riconosciuti.

Nell’ambito di tale riordino sarebbe opportuno, a parere di chi scrive, stabilire una regola uniforme che sia applicabile a tutti i disallineamenti derivanti da operazioni di carattere straordinario. È noto che nelle operazioni neutrali di conferimento di azienda, fusione e scissione operano addirittura più riallineamenti (come vedremo oltre), diversamente nelle operazioni di trasformazione societaria progressiva non è previsto alcun riallineamento, mentre se c’è una operazione dalla quale facilmente nascono disallineamenti tra valori civili e valori fiscale essa è proprio la trasformazione progressiva. Infatti, l’intervento del perito e la rilevazione di plusvalenze spesso porta a contabilizzare incrementi derivanti da plusvalenze latenti che generano un doppio binario di non agevole gestione. Nemmeno si può giustificare una disparità di trattamento del riallineamento (presente nel conferimento di azienda e non nella trasformazione progressiva) con l’argomentazione secondo cui il conferimento di azienda sarebbe una operazione realizzativa mentre la trasformazione progressiva non lo sarebbe: tale tesi è destituita di fondamento, almeno nei conferimenti “under common control” si hanno operazioni riorganizzative infragruppo, cioè non realizzative così come sicuramente non realizzativa è la trasformazione progressiva. Ma, mentre per i conferimenti il riallineamento è sempre possibile, non lo è nella trasformazione societaria, né risulta che esso sia allo studio, mentre l’occasione della Riforma sarebbe il luogo giusto per unificare i trattamenti.

Vediamo di analizzare i possibili campi di intervento legislativo.

Non vi è dubbio che il punto di partenza è intervenire sul riallineamento più frequente nella prassi operativa, cioè quello che deriva da operazioni di conferimento di azienda, scissioni e fusioni che abbiano sempre come oggetto rami di azienda. In questo senso la Relazione governativa cita l’articolo 176, comma 2-ter, Tuir, a norma del quale a fronte di una operazione di conferimento di azienda (e altresì fusioni o scissioni di rami di azienda) la società conferitaria ha diritto di versare una imposta sostitutiva con aliquote a scaglioni (12% fino a 5.000 euro, 14% da 5.000 a 10.000 euro, 16% oltre 10.000 euro) sui beni strumentali materiali e immateriali ottenendo così il riconoscimento fiscale del nuovo valore che diventerà assumibile come tale per il processo di ammortamento a partire dal periodo d’imposta nel quale è esercitata tale opzione. L’opzione può essere esercitata o nel periodo d’imposta successivo a quello nel quale è stato eseguito il conferimento, oppure in quello ulteriormente successivo (tramite un passaggio dichiarativo nel modello Redditi), mentre ai fini di una eventuale cessione del bene riallineato occorre attendere il quarto esercizio successivo a quello in cui è stata esercitata l’opzione. Va ricordato che questa scelta incide sulla fiscalità della sola conferitaria, nel senso che per la conferente che ha iscritto la partecipazione al posto dei beni trasferiti, l’esercizio della opzione da parte della conferitaria non produce alcun effetto, quindi, la partecipazione mantiene il valore fiscale dei beni trasferiti senza considerare l’incremento da riallineamento. Questo scenario si confronta con una seconda possibilità introdotta dal 2008 con il D.L. 185/2008, e cioè un secondo, e alternativo, riallineamento che può essere eseguito solo sui beni immateriali così come dispone l’articolo 15, commi da 10 a 12, D.L. 185/2008. L’aliquota della imposta sostitutiva è fissa al 16% a prescindere dall’importo riallineato e va versata in unica soluzione entro il termine per il versamento delle imposte relative all’esercizio nel quale l’operazione di conferimento è stata eseguita, per contro questa scelta permette una più veloce deduzione (5 anni) dei marchi e dell’avviamento riallineati. Anche la decisione di riallineare o meno deve essere assunta con una certa velocità poiché non vi è un lungo lasso temporale come nel caso dell’articolo 176, Tuir, bensì l’opzione è contestuale al versamento, quindi la decisione va presa nella dichiarazione dei redditi relativa all’esercizio di conferimento. Il maggior valore è tale già nell’esercizio di versamento della imposta sostitutiva, ma l’ammortamento del valore riallineato inizia dal periodo d’imposta successivo. Per contro, il periodo di ammortamento di avviamento e marchi di impresa (cioè i beni immateriali con ammortamento fiscale più lungo, pari a 18 anni), sarà molto più breve (e da qui il vantaggio di tale seconda scelta), poiché può essere dedotto in 5 anni. Le 2 norme condividono in parte l’ambito oggettivo, nel senso che per i beni immateriali immobilizzati (avviamento, marchi, licenze, etc.) entrambe le possibilità convivono ma diversi sono gli effetti e i costi. Infatti, se prendiamo, ad esempio, il riallineamento dell’avviamento, questa operazione può essere eseguita scegliendo il riallineamento ex articolo 176, Tuir, e versando l’imposta sostitutiva fissata, più frequentemente, al 12% (con versamento in 3 rate annuali). A fronte di tale scelta, però resta fermo il lungo periodo dell’ammortamento fiscale stabilito in 18 anni, contro l’ammortamento in 5 anni, come sopra si ricordava, previsto con il riallineamento speciale ex articolo 15, D.L. 185/2008. È chiaro che lo scenario alternativo porta con sé degli arbitraggi fiscali, basti pensare al caso della società che presenta crediti tributari compensabili con modello F24 per la quale l’imposta sostitutiva al 16% non presenta un reale esborso finanziario, ottenendo un riconoscimento immediato del maggior valore dell’avviamento, ma tali arbitraggi non sono il frutto di interpretazioni dei contribuenti, ma semplicemente il risultato di scelte normative non coordinate tra loro. Peraltro, non è chiaro, sempre riprendendo il contenuto del riallineamento speciale, il motivo per cui l’imposta sostitutiva del 16% è prevista sui beni immateriali e le altre attività immateriali, mentre per le attività non immobilizzate, crediti e rimanenze l’aliquota sia diversa: 20% per i crediti e 24% per le rimanenze.

Certamente siamo di fronte a uno scenario articolato e probabilmente confuso, ma resta pur sempre uno scenario creato dal Legislatore. Ora con la paventata Riforma dell’articolo 6, L. 111/2023 il quadro dovrebbe semplificarsi, mentre non è chiaro come si possano eliminare gli arbitraggi: se per arbitraggio si intende che con un versamento di una imposta sostitutiva minore di quella ordinaria si ottiene il riconoscimento di un maggior valore fiscale, viene da dire che questo è proprio il senso della imposta sostitutiva che da che mondo è mondo anticipa il gettito tributario a fronte di un minore esborso.

Nella previsione di razionalizzazione dei riallineamenti, oltre a quelli dei soggetti che passano agli Ias o abbandonano tali Principi contabili per tornare a quelli nazionali, è citato anche un riallineamento oggi inesistente che dovrebbe venire alla luce con la Riforma tributaria: il riallineamento per chi passa dalla derivazione semplice a quella rafforzata per effetto della scelta di redigere il bilancio con le regole ordinarie: parliamo delle microimprese che accedono per scelta al regime di cui all’articolo 83, comma 1, Tuir. Sul punto, per la verità, non è chiaro come possa incidere una imposta sostitutiva nel senso che un valore diviene fiscalmente riconosciuto per il semplice fatto che si accede al regime di derivazione rafforzata, non perché viene versata una imposta sostituiva: si pensi ad esempio, alla tassazione delle plusvalenze da lease back in base alla durata del contratto e non nel periodo fisso di 5 anni: tale possibilità è insita nella applicazione della derivazione rafforzata e non si capisce come possa agire una imposta sostitutiva. A meno che non si intenda che tramite un riallineamento a pagamento si mantiene il diritto a tale scelta tributaria anche quando, eventualmente, la derivazione rafforzata non si applicasse più a causa del venir meno della scelta di redigere il bilancio in forma ordinaria.

 

Nuove regole per dedurre gli interessi passivi con la Riforma tributaria

L’articolo 6, lettera d), L. 111/2023 di Riforma tributaria dedica spazio alla revisione delle regole in materia di deducibilità degli interessi passivi per società di capitali. Anzitutto è importante ricordare il distinguo nella deducibilità degli interessi passivi che si manifesta tra il caso degli interessi gravanti sulle imprese assoggettate a Irpef, rispetto al caso di quelle assoggettate a Ires.

Per i soggetti Irpef vige l’articolo 61, Tuir, a norma del quale gli interessi passivi sono deducibili nel caso in cui siano inerenti. Il tema della inerenza, quindi, diventa centrale e permetterà agli organi dell’Agenzia delle entrate di contestare quelli ritenuti non inerenti. È sintomatico il caso degli interessi passivi addebitati a Conto economico in un contesto patrimoniale nel quale i soci hanno eseguito prelevamenti superiori alle riserve disponibili: una parte degli interessi passivi sarà presunta quale correlata a esigenze personali (prelevamento eccedente il netto) e come tale resa indeducibile. Diverso è l’esito normativo in merito alla deducibilità degli interessi passivi per soggetti Ires (che è anche l’ambito interessato dalla ipotesi di Riforma): L’articolo 109, comma 5, Tuir richiama quale condizione di deducibilità dei componenti negativi il fatto che essi siano correlati ad attività da cui promanino ricavi imponili, ma tale precetto fa salvi gli interessi passivi che sono quindi sottratti alla necessaria correlazione con i ricavi (tema della inerenza). Sul punto è intervenuta, in anni recenti la Cassazione, sentenza n. 19430/2018 con la quale in una ipotesi di operazione LBO, ha bocciato la tesi dell’Agenzia delle entrate che riteneva di poter sindacare l’inerenza degli interessi passivi, sulla base del dato testuale dell’articolo 109, Tuir.

Ma se il tema del sindacato di inerenza è escluso per i soggetti Ires, allora sarà necessario individuare meccanismi di forfettizzazione della deducibilità che tengano conto di possibili utilizzi impropri delle risorse di terzi da cui derivano gli oneri finanziari. Da qui la disciplina dell’articolo 96, Tuir che tuttavia deve fare i conti con la grave crisi economica di anni difficili segnati dal Covid e dalla guerra ucraina con la conseguente crisi energetica, elementi questi che hanno comportato un crescente indebitamento. In questo scenario si colloca l’obiettivo della Riforma: rivedere i limiti di deducibilità per agevolare il rilancio delle attività produttive.

Attualmente il limite di deducibilità più significativo contenuto nell’articolo 96, Tuir è il cosiddetto Rol, o meglio il 30% di esso. Va ricordato che per effetto del c.d. “Decreto Atad”, a far data dal 2019 si applica il cosiddetto Rol fiscale per distinguerlo da quello precedente cosiddetto “contabile”. Tale differenza dipende dal fatto che il Rol è sempre determinato per differenza tra valore della produzione (area A del Conto economico) e costi della produzione (area B del Conto economico), non considerando nell’area B gli ammortamenti e i canoni leasing. Ma i dati dei singoli proventi o costi, che in precedenza erano computati per il valore contabile, dal 2019 vengono assunti al valore fiscalmente riconosciuto. Ciò significa, per esemplificare, che se viene realizzata una plusvalenza e si decide di tassarla in modo rateizzato, l’importo rilevante nel Rol sarà solo la quota annua della medesima plusvalenza e non il totale iscritto a Conto economico come avveniva fino al 2018. Per contro, se sono presenti costi non del tutto deducibili (ad esempio i costi relativi ad autoveicoli), essi deprimono il valore della produzione solo per l’importo deducibile, il che crea un indubbio incremento del Rol fiscale a diretto vantaggio dell’ammontare deducibile degli interessi passivi.

Altro elemento che è stato oggetto della modifica del c.d. “Decreto Atad” è la gestione della eccedenza di Rol non utilizzato in un dato periodo d’imposta poiché superiore all’ammontare degli interessi passivi. L’eccedenza che fino al 2018 poteva essere riportata a nuovo in modo illimitato nel tempo ora viene circoscritta a un riporto limitato al quinquennio successivo. Più precisamente, il comma 7 dell’articolo 96, Tuir nella attuale versione, permette il riporto a nuovo dell’eccedenza di Rol fiscale di un dato periodo entro il quinto esercizio successivo, e il comma 2 del medesimo articolo 96, Tuir puntualizza che gli interessi passivi di periodo vengono confrontati anzitutto con il Rol fiscale di periodo e per eccedenza con il Rol pregresso, a partire da quello relativo al periodo d’imposta meno recente, quindi, sostanzialmente, un criterio Fifo.

Il cambiamento del 2019 ha necessitato norme che avevano il compito di disciplinare il passaggio dal vecchio al nuovo e così accade con la previsione di cui all’articolo 13, D.Lgs. 142/2018. Tale ultima norma prevede anzitutto che le nuove regole si applichino dal 2019 il che potrebbe, in un primo momento, portare alla conclusione che il Rol contabile pregresso sia riportabile a nuovo in modo illimitato nel tempo. Ma in realtà così non è se solo si fa mente locale all’articolo 13, comma 4, D.Lgs. 142/2018 il quale prevede l’utilizzo del Rol contabile pregresso (cioè generato entro il 2018) solo nel caso in cui siano presenti in bilancio interessi passivi generati da prestiti contratti prima del 17 giugno 2016 la cui durata (dei prestiti) non sia stata modificata successivamente. Da ciò si ricava che nella ipotesi in cui siano stati presenti in bilancio solo interessi passivi generati post 17 giugno 2016, l’eccedenza di Rol contabile non sia fruibile, e quindi era necessario azzerarla fin dal 2019.

In questo scenario si collocano gli obiettivi della Riforma che sono sintetizzati nell’articolo 6, lettera d), L. 111/2023 e meglio dettagliati nella Relazione illustrativa. Il tema fondamentale è contrastare l’erosione di base imponibile che avviene nei gruppi societari transnazionali: in questi contesti le società più capitalizzate (e che quindi verosimilmente non necessitano di prestiti che a loro volta generano interessi passivi) sono collocate, quale sede giuridica, nei Paesi a bassa fiscalità, mentre le società sottocapitalizzate che sono gravate da maggiori interessi passivi sono collocate nei Paesi (come l’Italia) ad alta fiscalità. Questo arbitraggio genera la riduzione di base imponibile ritenuta non equa. A tale fine, sempre restando nel contesto dei gruppi societari, sono allo studio della Riforma alcuni correttivi che permettano la deducibilità degli interessi passivi se sia scongiurata la situazione sopra descritta, cioè lo squilibrio nella capitalizzazione. Pertanto, se l’indice di capitalizzazione della singola società gravata da interessi passivi In Italia, non sia inferiore a quello medio del gruppo, si potrà liberalizzare la deduzione degli interessi passivi atteso che in tal caso non si è in presenza di una politica di gruppo considerata, in qualche modo, abusiva del diritto.

Ma soprattutto è di interesse l’intervento sulle società cosiddette “stand alone” quindi non facenti parte del gruppo societario. Oggi l’articolo 96, Tuir non fa distinzione tra la società singola e quella facente parte del gruppo societario, mentre in futuro la società “stand alone” potrebbe beneficiare di una liberalizzazione nella deduzione degli interessi passivi. Al riguardo si parla di un tetto oggettivo di deducibilità pari a 3 milioni di euro, oppure si potrà individuare specifiche fasce di franchigia anche più limitate all’interno delle quali non operino tetti alla deducibilità.

Altro distinguo importante, nel valutare la “virtuosità” degli interessi passivi è distinguere l’ipotesi in cui essi derivino da prestiti di terzi (istituti di credito o similari) rispetto alla ipotesi che essi derivino da finanziamento dei soci: in questo secondo caso il pericolo di arbitraggio fiscale (anche fosse solo limitato alla discrasia sul momento di rilevanza fiscale, deducibilità per competenza in capo alla società, tassazione per cassa in capo al socio persona fisica finanziatore) è certamente maggiore rispetto alla ipotesi in cui gli interessi rappresentino il costo del denaro prestato da terzi. Nel caso in cui gli interessi passivi derivino da terzi la libera deduzione rientra tra gli obiettivi della Riforma.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “Il reddito di impresa.