10 Luglio 2024

Dal credito per le imposte assolte all’estero alla (in)deducibilità delle imposte sui redditi esteri

di Stefano Chirichigno
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L’articolo 165, Tuir che disciplina la possibilità di scomputare dall’Ires le imposte sul reddito assolte all’estero, è sicuramente uno degli articoli tecnicamente più complessi dell’intero Testo unico, affinatosi – ma in vero non semplificatosi – nel tempo. Una, seppur non l’unica, ragione della complessità è l’aver inteso ricondurre a unità 2 fattispecie strutturalmente differenti: il caso della impresa residente ma pluristabilita che è assoggettata alle imposte sul reddito degli ordinamenti in cui è presente attraverso una stabile organizzazione e l’impresa che, viceversa, subisce l’applicazione delle imposte sul reddito estere sotto forma di ritenute applicate dalla propria controparte non residente, sia nella veste di cliente sia di società partecipata o comunque finanziata, tipicamente in relazione a quelle categorie di reddito che si suole accomunare sotto la locuzione “passive income” (dividendi, interessi e canoni). La questione è resa più complessa dalla coesistenza, e in qualche misura soggezione, della norma domestica in commento alle Convenzioni contro la doppia imposizione (ove esistenti) che – con tutta evidenza – parimenti si prefiggono il medesimo fine equitativo.

Obiettivo del presente articolo è, attraverso un esame seppur limitato ai tratti essenziali della disciplina in oggetto (come detto oggetto di una significativa evoluzione nel tempo; in particolare, ci riferiamo alla sistematizzazione, almeno nelle intenzioni del Legislatore, operata dalla L. 80/2003), individuare taluni snodi cruciali che non sembrerebbero ancora essere stati pienamente fatti propri dalla prassi in materia. Senza voler anticipare le conclusioni, ci si deve interrogare su quale sia, dal punto di vista sistematico, la funzione dello scomputo imposta da imposta e se come detto scomputo debba essere considerato come uno, ma non l’unico, strumento a tutela del principio di capacità contributiva in presenza di un’imposizione sul reddito articolata e più o meno disomogenea.

La disciplina dettata dall’articolo 165, Tuir

Premessa

Preliminarmente, va considerato che, storicamente, l’ordinamento domestico ha optato per il sistema del credito d’imposta a differenza del diverso metodo (teoricamente più semplice) dell’esenzione, che considera definitive sempre le imposte del Paese in cui il reddito è prodotto con il chiaro intento di rendere definitivo il livello di imposizione più elevato tra quello del Paese della fonte e quello del Paese di residenza (Italia). Attraverso il credito di imposta, infatti, quando l’imposta estera, rispetto a quella dovuta in Italia (Paese di residenza del contribuente), è inferiore, si rende dovuta all’Erario italiano la differenza; viceversa, se superiore, non si dà luogo a “restituzione” dell’eccedenza, in quanto il credito compete solo fino a concorrenza dell’imposta italiana relativa al reddito estero.

Occorre tener presente sin d’ora che le differenze tra imposta estera e italiana dipendono in primo luogo dalle differenze in termini di aliquote nominali e criteri di determinazione della base imponibile, ma anche dalle differenze nei criteri di imputazione a periodo del reddito estero che viene assoggettato a imposizione nello Stato della fonte e in Italia secondo le rispettive norme interne.

I principi cardine

L’articolo 165, comma 1, Tuir, declina i principi cardine per la spettanza e fruibilità del credito, prevedendo che, se alla formazione del reddito complessivo concorrono redditi prodotti all’estero, le imposte ivi pagate a titolo definitivo su tali redditi sono ammesse in detrazione dall’imposta netta dovuta, di fatto declinando 3 condizioni:

  • la produzione di un reddito all’estero;
  • il concorso di quel reddito estero alla formazione del reddito complessivo del residente;
  • il pagamento di imposte estere a titolo definitivo.

Ne discende che, per poter beneficiare del credito d’imposta, è necessario in primis che i redditi prodotti all’estero concorrano alla formazione del reddito complessivo del soggetto residente. L’istituto non è quindi applicabile in presenza di redditi assoggettati a ritenuta a titolo di imposta, a imposta sostitutiva o a imposizione sostitutiva.

Evidentemente, poi, l’operatività dell’istituto è limitata ai tributi stranieri che si sostanziano in un’imposta sul reddito[1] e può essere affatto semplice stabilire se il tributo estero rientri tra quelli accreditabili ai fini dell’articolo 165, Tuir. I chiarimenti di prassi[2] ci dicono che in via di principio, la verifica sulla natura del tributo estero deve essere effettuata sulla base dei principi e delle nozioni evincibili dal nostro ordinamento tributario e che quindi le condizioni per essere qualificata come imposta sul reddito sarebbero 2:

  1. che si tratti di una prestazione patrimoniale normativamente imposta;
  2. che il presupposto impositivo sia il possesso di un reddito.

Si tratta di una verifica che non è necessaria, tuttavia, in tutti i casi in cui si possa invocare l’applicabilità di una Convenzione contro le doppie imposizioni stipulata dall’Italia e il tributo rientra nell’oggetto della stessa. Infatti, le Convenzioni[3] elencano i tributi rientranti nell’ambito del trattato nel momento della sua stipula. Il commentario al modello di Convenzione Ocse chiarisce al riguardo che “in linea di principio … si tratterà di una lista completa delle imposte considerate dalla Convenzione e prelevate in ciascuno Stato alla data della firma[4].

Per quanto attiene al requisito del concorso del reddito estero al reddito complessivo, va tenuto presente che, se il reddito estero concorre parzialmente alla formazione del reddito complessivo, l’imposta estera detraibile deve essere ridotta in misura corrispondente[5]. Non è questo il caso in cui, a causa di differenti modalità di determinazione del reddito nei vari ordinamenti, l’ammontare del reddito estero assoggettato a tassazione in Italia non corrisponda all’importo tassato nello Stato estero. Il reddito estero deve essere assunto infatti nell’ammontare determinato secondo le regole interne relative alle varie categorie[6]. Pertanto, il suddetto proporzionamento si rende applicabile solo laddove il reddito estero, determinato secondo le regole interne, sia parzialmente escluso dalla formazione dell’imponibile.

Il requisito dell’irrepetibilità

Come già anticipato in premessa, la detrazione è consentita quando le imposte estere sono state pagate a titolo definitivo e la definitività dell’imposta pagata all’estero coincide con la sua “irripetibilità[7], ossia con la circostanza che essa non è più suscettibile di modificazione a favore del contribuente, mentre è irrilevante il fatto se l’imposta è suscettibile di essere modificata a sfavore del contribuente, come nel caso in cui la stessa si riferisca a redditi ancora assoggettabili ad accertamento da parte delle Amministrazioni fiscali degli Stati esteri.

Pertanto, non possono, considerarsi definitive le imposte pagate in acconto o in via provvisoria e quelle per le quali è prevista, sin dal momento del pagamento, la possibilità di rimborso totale o parziale, anche mediante “compensazione” con altre imposte dovute nello Stato estero.

Coerentemente, le imposte suscettibili di parziale rimborso possono essere comunque detratte, al netto del rimborso spettante, purché si possa considerare certo il relativo ammontare alla data di presentazione della dichiarazione dei redditi in Italia.

Le imposte estere devono considerarsi “pagate a titolo definitivo” nel periodo d’imposta in cui le stesse sono state versate (a tale titolo), mentre non ha rilevanza il momento in cui il contribuente entra in possesso della relativa certificazione in quanto la certificazione ha valenza meramente probatoria e, pertanto, non costituisce presupposto per la definitività del pagamento del tributo. Munirsi tempestivamente della documentazione idonea a dimostrare il pagamento dell’imposta nello Stato estero è un mero adempimento probatorio[8].

Viceversa, una situazione di non detraibilità si ha nel caso di imposte corrisposte in pendenza di un procedimento contenzioso estero. In tale caso specifico, il requisito della definitività delle imposte estere si realizza nel periodo d’imposta in cui il contenzioso si conclude definitivamente, poiché prima di tale momento le imposte sono ancora provvisoriamente corrisposte.

Infine, va sottolineato che nel caso in cui un soggetto residente in Italia produca reddito in uno Stato con cui è in vigore una Convenzione contro le doppie imposizioni, il credito per le imposte pagate all’estero può essere preso in considerazione nel limite della ritenuta convenzionale. La circolare n. 9/E/2015, bontà sua, precisa che “se lo Stato estero ha applicato una ritenuta più alta di quella convenzionale, la differenza, non accreditabile in Italia, potrà essere oggetto di rimborso nello Stato estero, secondo le modalità ivi previste”. Giova precisare sin d’ora che si tratta di fattispecie in cui è ben frequente che un’analisi di economicità induca a desistere a priori nella consapevolezza che anche a trascurare le incertezze insite ad azioni di rimborso di questo tipo, anche solo i costi per coltivare l’inevitabile contenzioso supererebbero i benefici del rimborso, con buona pace anche dell’Erario domestico che di certo non potrebbe negare la deducibilità di tali costi (salvo una surreale contestazione di antieconomicità di una scelta da esso stessa, per bocca dell’Agenzia delle entrate, suggerita).

La quantificazione del credito

Le imposte estere pagate a titolo definitivo sono detraibili dall’imposta netta dovuta, nei limiti della quota d’imposta corrispondente al rapporto tra i redditi esteri e il reddito complessivo, al netto delle perdite dei precedenti periodi d’imposta ammesse in diminuzione, vale a dire applicando la seguente formula: (RE/RCN) x Imposta Italiana dove RE è il reddito estero e RCN è il reddito complessivo al netto delle perdite dei pregressi periodi d’imposta.

In altri termini, l’accreditamento delle imposte estere non può essere superiore alla quota d’imposta italiana corrispondente al rapporto sopra indicato, da assumere – in ogni caso – nei limiti dell’imposta netta dovuta per il periodo d’imposta in cui il reddito estero ha concorso al complessivo reddito imponibile.

In teoria il rapporto tra il reddito estero (RE) e il reddito complessivo al netto delle perdite di esercizi precedenti (RCN), può risultare superiore a “1” e ciò si verifica laddove le perdite, d’esercizio o riportate a nuovo, sono sufficienti ad assorbire interamente il reddito di fonte italiana e parte di quello estero. In tal caso[9], il rapporto si considera comunque pari a “1”, non potendo l’imposta relativa al reddito estero essere riconosciuta in misura superiore all’imposta effettivamente dovuta, poiché, lo Stato italiano non è disponibile ad andare oltre l’azzeramento dell’Ires rimborsando, di fatto, imposte estere.

Va precisato che Il numeratore del rapporto (RE) di cui al comma 1 è rappresentato dal reddito estero che ha concorso a formare il reddito complessivo in Italia, quindi, così come rideterminato in base alle disposizioni fiscali italiane, deve essere assunto al “lordo” dei costi sostenuti per la sua produzione, in ragione delle obiettive difficoltà nella determinazione e nel controllo dei costi effettivamente imputabili a singoli elementi reddituali.

Per quanto concerne invece il denominatore del rapporto (RCN), il reddito complessivo è assunto, come detto, al netto delle perdite dei precedenti periodi d’imposta ammesse in diminuzione.

Profili temporali

La detrazione deve essere calcolata nella dichiarazione relativa al periodo cui “appartiene” il reddito prodotto all’estero al quale si riferisce l’imposta, a condizione che il pagamento a titolo definitivo avvenga prima della sua presentazione, principio che trova applicazione anche nel caso in cui il contribuente presenti la dichiarazione tardivamente, purché entro i 90 giorni successivi alla scadenza dell’ordinario termine. Qualora il pagamento a titolo definitivo delle imposte estere avvenga in un periodo precedente a quello in cui il reddito prodotto all’estero concorre alla formazione del reddito complessivo del residente, la detrazione deve essere calcolata nella dichiarazione relativa al periodo di appartenenza in Italia di tale reddito estero.

Nel caso in cui, invece, il suddetto pagamento si verifichi successivamente alla presentazione della dichiarazione relativa al periodo in cui il reddito estero ha concorso a formare l’imponibile in Italia, occorrerà procedere a una nuova liquidazione dell’imposta dovuta per tale periodo nella prima dichiarazione utile rispetto al momento in cui si renderà definitiva l’imposizione all’estero, fermo restando che la quota d’imposta italiana e l’imposta netta dovuta, rilevanti ai fini del computo della detrazione, saranno quelle relative al periodo d’imposta in cui il reddito estero ha concorso alla formazione del reddito complessivo.

Per i redditi d’impresa prodotti all’estero mediante stabili organizzazioni, la detrazione del credito può essere operata dall’imposta del periodo di competenza anche se il pagamento a titolo definitivo avviene entro il termine di presentazione della dichiarazione dei redditi relativa al primo periodo d’imposta successivo. L’esercizio di tale facoltà è condizionato all’indicazione, nella dichiarazione dei redditi, delle imposte estere detratte per le quali non è ancora avvenuto il pagamento a titolo definitivo.

Si tratta di una mera facoltà e, quindi, resta fermo che è ben possibile attendere il pagamento definitivo delle imposte estere e operare la detrazione nella dichiarazione entro il cui termine di presentazione è avvenuto tale pagamento, tenuto conto che, qualora non si concretizzi la summenzionata condizione, è previsto il disconoscimento del credito.

Infine, occorre procedere a una nuova liquidazione dell’imposta dovuta per il periodo nel quale il reddito estero ha concorso a formare l’imponibile in caso di accertamento nel Paese della fonte di un maggior reddito estero. A tal riguardo, in primo luogo si deve distinguere tra il caso in cui il maggior reddito estero assume rilievo anche per l’ordinamento italiano e quello in cui in Italia il reddito prodotto all’estero non venga rettificato. Nel secondo caso, la situazione in esame risulta riconducibile a quella in cui è necessario semplicemente procedere al riconoscimento delle ulteriori imposte estere pagate in un periodo d’imposta successivo a quello di appartenenza del reddito. Tale situazione può scaturire, in particolare, dalla non coincidenza, nel Paese della fonte e in Italia, delle regole di determinazione di un medesimo reddito: ad esempio, la diversità dei criteri che disciplinano il reddito d’impresa è tale che il reddito della stabile organizzazione assoggettato a tassazione nel Paese di localizzazione non corrisponde a quello che concorre alla formazione della base imponibile della casa-madre.

Pertanto, se il maggior reddito accertato all’estero deriva dalla rettifica di componenti negativi o positivi effettuata in base a regole che non trovano corrispondenza nella disciplina italiana del reddito di impresa, si procederà solo a una nuova liquidazione della detrazione spettante, senza alcuna rettifica del reddito originariamente dichiarato.

Viceversa, qualora la rettifica del reddito estero assuma rilievo anche in Italia, sulla base dei criteri di determinazione propri di ciascuna categoria reddituale[10], occorre tenere conto tanto del maggior reddito accertato quanto delle maggiori imposte estere, distinguendo il caso in cui in Italia sia o meno scaduto il termine per l’accertamento. In pendenza dei termini per l’accertamento, l’imponibile e la relativa imposta devono essere rettificati vuoi per effetto dell’attività di controllo da parte dell’Amministrazione finanziaria, vuoi su iniziativa dello stesso contribuente (avvalendosi del ravvedimento). Si ha quindi una nuova liquidazione della detrazione spettante a titolo di credito per imposte assolte all’estero, che tiene conto delle maggiori imposte estere sostenute a seguito della rettifica operata nello Stato della fonte. Di contro, laddove il termine per l’accertamento sia scaduto, la detrazione è limitata alla quota dell’imposta estera proporzionale all’ammontare del reddito prodotto all’estero acquisito a tassazione in Italia e quindi la maggiore imposta estera rileva proporzionalmente al reddito già a suo tempo sottoposto a tassazione, non essendo possibile tenere conto del maggior reddito percepito (in quanto non più accertabile).

La deducibilità delle imposte non detratte

Anche da una estremamente sintetica disamina della disciplina in commento, quale è quella testé proposta, emerge che, anche limitandoci al caso del reddito di impresa, la contabilizzazione delle imposte estere quale credito piuttosto che quale costo non può certo essere fatta a cuor leggero, Tante e tali sono i presupposti e i vincoli di natura tanto sostanziale quanto formale, cui si aggiungono le ulteriori incertezze che i sopra descritti fenomeni di sfasamento temporale, che la soluzione di gran lunga prediletta dagli operatori è la rilevazione di un costo e solo una volta che va ad abbattere, se del caso, direttamente l’Ires, la riclassifica come credito. Non sta a chi scrive sindacare la contabilizzazione, ma, nella prospettiva squisitamente tributaria, l’approccio è esattamente opposto, vedendo nell’assolvimento delle imposte all’estero l’automatica rilevazione di un credito che, nella misura in cui la normativa qui in commento neghi la concreta utilizzabilità (e come visto esite un amplissimo spettro di ipotesi in cui volente o nolente, il credito non “spetta” in tutto o in parte), si risolve in un costo aggiuntivo alla stregua di una qualsiasi inefficienza di sistema, la cui inerenza è in re ipsa.

In effetti la circolare n. 9/E/2015 più volte citata sembra inserirsi nel solco di risalente prassi in tal senso[11] affermando, seppur con riferimento a uno specifico contesto[12], che le “imposte estere che difettano del presupposto applicativo dell’articolo 165, Tuir possono essere considerate componenti negativi deducibili ai fini della determinazione del reddito complessivo in quanto costi inerenti l’attività d’impresa”.

Inopinatamente però la circolare afferma senza argomentare[13] altresì che, nell’ipotesi in cui l’imposta pagata nello Stato estero, “accreditabile ai sensi dell’articolo 165, Tuir, non risulti completamente detraibile[14] per effetto del peculiare meccanismo applicativo previsto dalla disciplina in esame”, “l’eccedenza di imposta estera rimasta a carico del contribuente non può essere dedotta né è altrimenti recuperabile in Italia[15]

Con leggerezza l’Agenzia delle entrate afferma che l’istituto del credito d’imposta costituisce l’unico rimedio accolto dal nostro ordinamento contro la doppia imposizione internazionale. E l’inerenza citata solo poche righe prima? Il principio di determinazione analitica dei redditi scomputando dai proventi i costi inerenti (tra cui le appena menzionate imposte estere sono in prima fila) dove è finito? L’affermazione può essere accolta solo se con il termine rimedio si intende uno strumento di neutralizzazione magari solo parziale ma diretta, ma di certo non è riferibile alla ordinaria deduzione dei costi inerenti alla produzione del reddito ed è difficile trovare qualcosa di più direttamente inerente delle imposte sul reddito generato dai proventi imponibili.

A scanso di equivoci, non si può neanche far riferimento all’indeducibilità dell’Ires positivamente disposta dall’articolo 99, Tuir. Il riferimento all’Ires è da considerarsi tecnicamente puntuale[16] e non suscettibile di applicazione in via di analogia, prova ne sia la travagliata vicenda della deducibilità dell’Iva non detratta (la norma cita infatti anche le imposte, come l’Iva, per le quali la rivalsa è obbligatoria).

 

[1] La circolare n. 9/E/2015 si spinge ad aggiungere che il credito spetto anche con riferimento a “tributi con natura similare” alle imposte sul reddito. A ben vedere, è una precisazione che più che denotare un approccio sistematico, lascia trasparire una certa “difficoltà a maneggiare la materia”. È del tutto evidente che un esercizio di assimilazione si impone per qualsiasi forma di imposizione estera e quindi la precisazione può essere solo fonte di equivoci (di cui, invero, ben pochi sentivano la necessità).

[2] Circolare n. 9/E/2015, § 2.3.

[3] Tipicamente e sempre laddove ispirate al modello Ocse.

[4] Al fine di evitare una nuova negoziazione della Convenzione ogni volta che si verifica una modifica normativa nell’ordinamento tributario di uno degli Stati contraenti, il § 4 dell’articolo 2, modello Ocse prevede l’applicazione del trattato anche alle imposte di natura identica o analoga istituite dopo la sua firma, in aggiunta o in sostituzione delle imposte esistenti, e l’obbligo per le Autorità fiscali degli Stati contraenti di comunicarsi le modifiche apportate alle loro rispettive legislazioni fiscali.

[5] Coerentemente con il sistema sull’imposizione dei redditi, nei limiti in cui opera la parziale esclusione del reddito estero dall’imponibile, alla mancata tassazione corrisponde simmetricamente il mancato riconoscimento del credito di imposta per i redditi prodotti all’estero.

[6] Con l’unica eccezione dei redditi dei terreni e dei fabbricati situati al di fuori del territorio italiano che, invece, rilevano secondo la valutazione effettuata nello Stato estero.

[7] Principio che si può far risalire alla circolare n. 50/E/2002.

[8] Tipicamente, un prospetto recante l’indicazione (distinta Stato per Stato), dell’ammontare dei redditi prodotti all’estero, l’ammontare delle imposte pagate in via definitiva in relazione ai medesimi, la misura del credito spettante in base alla formula (RE/RCN) x Imposta Italiana (di cui infra), la copia della dichiarazione dei redditi presentata nel Paese estero, qualora sia ivi previsto tale adempimento, la ricevuta di versamento delle imposte pagate nel Paese estero, l’eventuale certificazione rilasciata dal soggetto che ha corrisposto i redditi di fonte estera, l’eventuale autonoma richiesta di rimborso.

[9] Vedasi la Relazione illustrativa al D.Lgs. 344/2003 poi ripresa dalle istruzioni ai modelli di dichiarazione dei redditi.

[10] Si pensi al caso di un disconoscimento di costi per operazioni inesistenti o alla rilevazione di componenti positivi o singoli elementi di redditi non dichiarati.

[11] Viene espressamente richiamata la risoluzione n. 416/1979 di cui si conferma la perdurante validità.

[12] Testualmente “Limitatamente ai predetti casi” ma quali siano i predetti casi non è chiarissimo; sembrerebbe quello del reddito derivante da prestazioni commerciali effettuate in un altro Stato in assenza di una stabile organizzazioni in assenza di Convenzione contro le doppie imposizioni concretamente applicabile.

[13] In quanto, testuale, “È solo il caso di evidenziare”. Probabilmente la superficialità di approccio si deve al precedente della risoluzione n. 1548/1982.

[14] Non è chiaro nemmeno cosa si intenda con imposta che sia accreditabile ai sensi dell’articolo 165, Tuir, ma che non risulti completamente detraibile.

[15] Beni si comprende che allorquando la stessa circolare affronta il tema dell’imposta estera che risulta non detraibile in applicazione del comma 10 dell’articolo 165, Tuir, reiteri l’errore affermando- sempre senza argomentare – che “non è deducibile, né altrimenti recuperabile in Italia”.

[16] Va da sé che un’imposta sia indeducibile dalla sua base imponibile in quanto logicamente successiva alla determinazione della stessa, pena un processo iterativo regressivo.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “Il reddito di impresa.