12 Giugno 2024

Pillar II e CFC

di Stefano Chirichigno
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La disciplina c.d. CFC si sostanzia nella tassazione immediata e per trasparenza presso il soggetto controllante del reddito complessivo maturato presso tutte le controllate estere che, nel proprio Paese di insediamento, non siano state assoggettate a un congruo livello di tassazione o, in alternativa, l’immediata tassazione solo di alcuni specifici redditi, i c.d. passive income che maggiormente si prestano a essere dislocati in giurisdizioni a bassa imposizione senza una valida ragione economica (che non sia, va da sé,  il mero risparmio di imposta). Il Pillar 2 (che tecnicamente si identifica essenzialmente nell’istituto del Global Anti-Base Erosion c.d. GloBE), dal canto suo, si prefigge di garantire, attraverso regole comuni, che in ogni giurisdizione in cui viene a insediarsi un gruppo transnazionale esso sconti un’effettiva imposizione non inferiore al 15%. Se la tassazione locale è inferiore a tale misura, si dovrà prelevare un’imposta integrativa e questo compito è affidato in prima battuta alla parent company delle constituent entities (branch o subsidiary, “CE”) localizzate nella giurisdizione a bassa fiscalità, in particolare all’ultimate parent entity (“UPE”) e, in alternativa, alle altre CE del gruppo, in particolare nell’ipotesi in cui la giurisdizione della UPE non abbia implementato le regole del Pillar 2.

È legittimo dunque chiedersi se vi sia compatibilità, o al contrario la generalizzata applicazione delle regole GloBe sarebbe di per sé idonea a mandare in pensione le varie CFC (quindi, a oggi, a circoscriverne l’applicazione ai contesti giurisdizionali in cui le regole GloBe non operano), atteso che ambedue ambiscono a essere strumenti ispirati al medesimo principio di imputazione al soggetto controllante del reddito proprio della controllata estera.

 

Il meccanismo di funzionamento delle regole GloBe nella prospettiva della compatibilità con le CFC rules

L’istituto del GloBE è un sistema di tassazione coordinato a livello multilaterale che si basa in primo luogo sulla Income inclusion rule (“IIR”) che può apparire come una sorta di CFC ma che, a differenza delle CFC, si applica a tutte le subsidiary e branch e a tutti i tipi di reddito. Inoltre, il GloBE funziona come imposta aggiuntiva fino a raggiungere un livello minimo di tassazione effettiva (così da escludere il foreign tax credit onde arrivare al prelievo della c.d. top-up tax TUT”) – ossia dell’eventuale differenziale di tassazione tra il livello minimo del 15% e l’effective tax rate (“ETR”) delle CE di una determinata giurisdizione – a carico dell’UPE nel Paese in cui è localizzata.

L’operatività del GloBE richiede un processo che si sviluppa in più steps e il cui punto di partenza è l’individuazione dell’ETR di ciascuna CE utilizzando modalità di calcolo comuni, tanto per l’individuazione delle imposte (covered taxes) che costituiscono il numeratore del rapporto, quanto per la determinazione del denominatore, vale a dire della base imponibile (il GloBE income) di diretta derivazione dai risultati di bilancio, come rideterminati in coerenza con i Principi contabili di comune accettazione adottati per il bilancio consolidato di gruppo e rettificato con alcune variazioni tassativamente individuate. In tal modo si arriva, alla determinazione dell’ETR generale di ciascun Paese (pari alla somma algebrica degli ETR delle varie entità presenti sul territorio) per consentire la compensazione su base jurisdictional degli eventuali differenti livelli di tassazione delle singole CE (c.d. jurisdictional blending). La differenza tra l’ETR generale del Paese (covered taxes/GloBE income) e il livello minimo di tassazione del 15% individua la percentuale di TUT che deve applicarsi per ciascuna giurisdizione.

Va sottolineato che la percentuale di TUT (ad esempio il 10% di differenza tra un ETR del 5% e il livello minimo del 15%) produce effetti non sull’intero importo del GloBE income della giurisdizione (sull’intero importo cioè che compare al denominatore del rapporto), bensì soltanto sugli excess profit; ossia sulla parte del GloBE income che eccede i profitti c.d. routinari, rappresentativi della remunerazione (ordinaria) delle effettive attività economiche svolte dal gruppo nella giurisdizione e determinati forfetariamente (attualmente in ragione del 5% del costo del personale e del 5% del valore degli asset materiali utilizzati, ma si tratta di percentuali destinate a variare nel tempo).

In altri termini, la parte del GloBE income rappresentativa della sostanza economica e dei correlati profitti ordinari, proprio perché ritenuta – assiomaticamente – di inscindibile competenza territoriale del Paese in cui sono esercitati i c.d. brick and mortar business – è esclusa dal livello minimo di tassazione. Si tratta della Substance-based income exclusion (“SBIE”) che altro non è che lo spazio, l’ambito, lasciato alle politiche di incentivazione domestiche.

Ulteriore step, la TUT generale dovuta per ogni giurisdizione – derivante dalla applicazione della TUT percentage (nell’esempio di cui sopra 10%) ai jurisdictional excess profit – viene ripartita tra le CE del Paese in proporzione al rispettivo GloBE income affinché possa essere poi prelevata con l’IIR dall’UPE in un processo di aggregazione e successiva ripartizione motivato dall’esigenza di consentire (con l’aggregazione dell’ETR) il jurisdictional blending; e di non ostacolare (con la ripartizione della TUT) il funzionamento del meccanismo di prelievo anche in gruppi molto articolati nel cui contesto le singole CE del Paese potrebbero essere inserite in catene e linee di controllo diverse ed essere partecipate, ad esempio, da intermediate parent (“IPE”) diverse che, a determinate condizioni, potrebbero essere chiamate ad applicare l’IIR in luogo della UPE.

E dunque la TUT attribuita a ciascuna CE di un dato Paese dovrà essere prelevata, in via prioritaria – senza per il momento considerare gli effetti dell’eventuale introduzione della Qualified domestic minimum tax (“QDMT”), di cui in appresso, attraverso l’applicazione dell’IIR presso l’UPE o – se questa è localizzata in un Paese che non ha implementato le regole GloBE – presso le IPE presenti nella catena partecipativa. Pertanto, il meccanismo di inclusione (IIR) attribuisce alla giurisdizione di residenza della UPE (o, in subordine IPE) il potere di assoggettare a tassazione – fino a concorrenza dell’aliquota minima effettiva concordata a livello multilaterale – gli extra profitti (i profitti che eccedono quelli c.d. routinari determinati nei modi anzidetti) realizzati dalle CE partecipate che non siano stati adeguatamente tassati nelle giurisdizioni in cui sono presenti.

È questa la rule of order attraverso cui sono recuperati – in Paesi esteri – i differenziali di tassazione originariamente emersi, rispetto al livello minimo del 15%, nelle giurisdizioni in cui sono presenti Low taxed constituent entity (“LTCE”): giurisdizioni che vedono così “migrare” a favore di altri ordinamenti i benefici fiscali da esse riconosciuti al gruppo.

Orbene, un elemento qualificante è che tutto ciò viene per così dire rovesciato nel caso in cui le giurisdizioni della fonte, in cui emergono gli excess profit soggetti a TUT, introducono nel proprio ordinamento (come avvenuto in Italia) la sopra citata QDMT che consente di far valere il diritto a recuperare – in via prioritaria rispetto all’IIR, charging rule del GloBE) – la TUT riferibile al proprio ordinamento, riducendola o azzerandola del tutto. Su questo aspetto si tronerà oltre perché è necessario preliminarmente focalizzarsi sull’interazione e il confronto tra regimi CFC e Pillar 2 “prima” della QDMT.

 

Pillar 2 e CFC allo specchio

In primo luogo, vanno sottolineate alcune differenze di fondo. Mentre, la CFC assoggetta alla corporate tax della giurisdizione della parent (secondo le sue aliquote e le sue regole di determinazione della base imponibile) l’intero reddito di ciascuna singola controllata estera[1], il meccanismo di funzionamento dell’IIR basa il calcolo dell’ETR su regole di individuazione delle covered taxes (al numeratore) e del GloBE income (al denominatore) che sono state condivise a livello internazionale e prevede che la TUT sia inizialmente quantificata su base giurisdizionale[2].

Inoltre, un fondamentale punto di discontinuità è che la TUT del GloBE incide sugli extra profitti e quindi sottintende una discriminazione economico-qualitativa del reddito in funzione del fatto che i profitti realizzati entro o oltre la soglia della remunerazione routinaria siano riferibili a fattori qualitativamente differenti di generazione della ricchezza (costo del lavoro e tangible asset più strettamente riconducibili a un dato territorio nazionale versus fattori intrinsecamente sovranazionali intangible asset, sinergie di gruppo, data consumers, etc.), provvedendo quindi a recuperare presso la parent entity il solo differenziale di tassazione sulla quota di profitti con collegamento territoriale più debole.

Ulteriormente, la CFC opera, nella sostanza, alla stregua di una regola di coordinamento (infragruppo) bilaterale tra l’ordinamento del soggetto controllante (diretto o indiretto) e l’ordinamento dell’entità controllata, laddove invece il GloBE introduce regole di coordinamento (infragruppo) multilaterale tra più sistemi fiscali. I criteri di coordinamento riconoscono, quindi, la priorità alle CFC rules (domestiche) rispetto all’IIR (a valenza internazionale). E, per evitare la doppia imposizione, si è stabilito che le imposte proporzionalmente dovute, a titolo di CFC, dal socio (diretto o indiretto) lungo la catena di controllo siano allocate alla controllata e considerate – ai fini dell’IIR – tra le covered taxes del numeratore del rapporto espressivo dell’ETR. Questo fenomeno (il c.d. “push down”) di allocazione delle imposte all’entità presso cui emerge il reddito (e non presso il socio che le deve sostenere) è coerente con una visione unitaria del processo di formazione del profitto secondo un approccio di gruppo.

In conclusione, in virtù di tutti gli elementi differenziali nelle rispettive configurazioni, i regimi CFC e l’IIR possono convivere senza che i singoli Paesi debbano precludersi di continuare ad affiancare l’IIR alla domestica CFC.

Non va dimenticato che il dibattito relativo al grado di “invasività” delle regole CFC e all’ordine prioritario di applicazione, rispetto alla stessa CFC, affonda le radici in quello che è stato acutamente definito un conflitto “ideologico” tra coloro che ritengono che sia fondamentale il contributo recato alla catena del valore dalle consociate che contribuiscono “day by day” alle attività core di sviluppo degli intangibles (“development, maintenance, protection, exploitation”, c.d. attività DEMPE[3]), e coloro che, invece, ritengono preminente il contributo degli intangibles e, quindi, che debba essere allocata – e tassata – presso la capogruppo, per la parte che eccede la modesta remunerazione attribuibile alle attività routinarie (“low risk”) di tutte le consociate che agiscono in altre giurisdizioni.

Sotto tale profilo va sottolineato il cambio di passo del Pillar 2[4] che intende limitare, senza se e senza ma, la propensione degli Stati a ridurre le aliquote delle corporate taxes per competere, come si evince dal chiaro riferimento alla tassazione effettiva per giurisdizione, prescindendo dalla situazione della singola CE, così come l’indifferenza rispetto alla collocazione geografica delle varie funzioni assegnate alle società del gruppo e alla natura active o passive dei redditi prodotti[5].

 

Quando i Paesi della fonte optano per la QDMT

In linea di principio, dunque, la disciplina CFC dovrebbe essere strutturalmente idonea a chiudere il sistema, ricomponendo tutti i possibili disallineamenti residui attraverso l’immediato assoggettamento a imposizione, nel Paese del controllante, del reddito della controllata estera.

Ciò non di meno l’interazione tra le discipline CFC applicabili nei Paesi dei soggetti controllanti (diretti o indiretti) e la QDMT (che, appunto, consente di recuperare la top up tax presso le controllate a opera della giurisdizione di appartenenza, nel presupposto che idealmente il grado di collegamento con la sottostante fonte della ricchezza si attenui nella risalita dalla fonte alla parent entity) potrebbe produrre effetti distorsivi.

Occorre infatti tener presente che le regole applicative del GloBE prevedono che le CFC taxes (ossia le imposte prelevate presso il soggetto controllante in applicazione di regimi di imputazione a titolo di CFC) debbano essere riconosciute come imposte proprie della controllata presso cui il reddito si è formato e quindi incluse[6] tra le covered taxes del numeratore del rapporto espressivo dell’ETR.

Non è un caso che si parli della CFC come di un ‘cigno nero’ che mina dall’interno l’efficacia della QDMT[7].

A ben vedere, la QDMT cambia le regole del gioco a favore dei Paesi di appartenenza delle LTCE, i quali possono intervenire in via prioritaria nel recupero dei differenziali di tassazione (rispetto al 15% minimo), seppur limitatamente agli extra profitti emersi sul territorio nazionale. Dal canto loro, le CFC rules, che verosimilmente saranno all’uopo aggiornate e generalizzate dai singoli ordinamenti, potrebbero costituire un mezzo attraverso cui i Paesi di residenza delle UPE si riappropriano del diritto prioritario di tassazione dei predetti differenziali con riferimento, va rimarcato, a tutti i profitti ivi inclusi i profitti rutinari[8].

Per effetto dell’introduzione della QDMT vi è il rischio concreto che l’applicazione delle CFC rules da parte dello Stato dell’UPE in qualche modo prevarichi il sistema fiscale dello Stato della LTCE. È ben vero che non sarebbe corretto affermare che lo Stato dell’UPE si appropria strictu sensu delle imposte dello Stato della LTCE (il quale può vantare diritti primari sui profitti da questa realizzati) e non è tenuto a riconoscere una qualche forma di credito d’imposta o esenzione a fronte del prelievo subito nell’altro Stato contraente. Ed è parimenti ben vero che la giurisdizione delle LTCE potrebbe riappropriarsi del potere di tassarli in via prioritaria aumentando le aliquote della corporate income tax o con l’adozione di una domestic minimum tax non qualificata (tenuto conto che queste imposte incrementano il numeratore, prima e indipendentemente dall’operatività delle CFC rules altrui), ma è innegabile che in tal modo abdicherebbe al diritto che la QDMT in teoria dovrebbe garantire al Paese della LTCE di utilizzare la leva fiscale per attribuire regimi fiscali (non harmful) di vantaggio quanto meno sui profitti routinari.

In pratica, i diritti impositivi esercitabili con la QDMT a carico della LTCE controllata finiscono per risultare potenzialmente subordinati alle CFC applicabili a tutte le parent fino alla UPE.

A nostro avviso quanto sopra potrebbe, altresì, creare qualche profilo di compatibilità con la stessa giurisprudenza della Corte di Giustizia UE che ritiene giustificata la disciplina CFC solo come strumento di contrasto di insediamenti che non comportino un’effettiva presenza economica e sociale e a tutela del diritto degli Stati membri di esercitare le proprie competenze fiscali in relazione ad attività esercitate sul proprio territorio e non come strumento di contrasto di qualsiasi fenomeno di delocalizzazione reale.

 

Considerazioni a margine

In conclusione, emergono chiaramente due obiettivi di fondo, in qualche misura divergenti, ascrivibili al Pillar 2. Un primo (anche in termini di importanza) obiettivo è che siano assoggettati a un livello minimo comune di tassazione i profitti consolidati dei grandi gruppi multinazionali per contrastare efficacemente le strategie di competizione fiscale tra ordinamenti più spregiudicate (e dannose) che si basano sulla riduzione delle aliquote della corporate tax (determinando un fenomeno di progressiva corsa al ribasso c.d. “race to the bottom”) nonché gli schemi di artificiosa creazione di masse di extra profitti “apolidi” sostanzialmente liberi da imposizione[9]. Di contro, è innegabile un secondo obiettivo che si sostanzia nel supporto alla capacità delle singole giurisdizioni di essere attrattive e di competere lealmente anche in campo fiscale a beneficio del sistema economico nazionale, dell’innovazione e del benessere generali.

In particolare, la possibilità lasciata ai singoli ordinamenti di introdurre la QDMT intende salvaguardare tale diritto di ogni giurisdizione a concedere agevolazioni purché rispettose dei requisiti di sostanza, come sopra forfetariamente individuati; ecco che la QDMT svolge un fondamentale ruolo di misura di chiusura dei sistemi contro la migrazione delle imposte relative ai profitti routinari. È innegabile, però che la QDMT ha sovvertito, a vantaggio del Paese di stabilimento delle LTCE l’ordine di priorità per il recupero della TUT che con le regole ordinarie, viceversa, spettava (attraverso l’IIR) alla giurisdizione della UPE.

Di qui potrebbe determinarsi nel medio termine una corsa dei singoli ordinamenti a rivedere e rafforzare le CFC rules per renderle idonee a cogliere basi imponibili il più possibile corrispondenti al GloBE income con l’effetto di vanificare anche del tutto la QDMT e i suoi obiettivi (anche a costo di snaturare la natura della stessa disciplina CFC).

Vero è però che l’abbattimento della propensione dei grandi gruppi a porre in essere complesse strategie per evitare di pagare le imposte nei Paesi della fonte passa attraverso la percezione della certezza dell’immediata tassazione di questi redditi (o quanto meno delle tipologie più “mobili” di reddito) nel Paese della parent company.

Si tratta dunque di tematiche molto complesse in un contesto globale in cui è innegabile la necessità di regole di coordinamento sovranazionali da elaborare in sede Ocse per bilanciare le dispute e i veri e propri conflitti di interesse in merito alla creazione del valore dei nuovi modelli di business, soprattutto nell’ambito della digital economy, tra USA e UE, conflitti figli della sopra descritta differente prospettiva con cui si guarda alle modalità di formazione della catena del valore. Atteso che le società capogruppo delle multinazionali hi-tech (creatrici degli IP) sono residenti prevalentemente negli USA e in buona misura gli Stati UE costituiscono per così dire dei grandi mercati che – ancorché contribuiscano in forme nuove alla produzione di ricchezza di tali società, attraverso, in particolare, l’apporto più o meno consapevole degli utilizzatori alla creazione dei c.d. “Big Data[10] utilizzati e commercializzati a proprio beneficio dalle società hi-tech, è palese che i Paese UE non hanno alcun beneficio in termini di basi imponibili in base ai tradizionali principi di fiscalità internazionale (in primis, quello della stabile organizzazione). È agevole, infatti, per le imprese hi-tech minimizzare (a anche azzerare) la presenza fisica (e, quindi, l’insediamento di una stabile organizzazione[11]) sui territori da cui traggono i ricavi e in cui sono presenti[12]. Si tratta di una delle principali rivoluzioni del web e dell’economia digitale che rende evidente come sia ineludibile il tema di come ripartire in modo equo, razionale e praticamente fattibile la potestà impositiva tra i vari Stati in cui si genera e si sviluppa l’attività delle multinazionali hi-tech; in altri termini, come individuare e dare rilievo ai fattori che contribuiscono alla catena del valore da cui esse traggono profitti.

Tutto ciò è reso assai più complesso dalla circostanza di fatto per cui i gruppi societari non sono più costituiti da un insieme di imprese (quante sono le imprese e le stabili organizzazioni che ne fanno parte), che operano in piena autonomia l’una dall’altra negli Stati di insediamento. Siamo sovente di fronte, al contrario, a un’unica impresa con articolazioni diversificate territorialmente attraverso l’attribuzione a ogni entità del gruppo di funzioni specifiche ed estremamente frammentate (ad esempio attinenti alla produzione di singole componenti, alla gestione del magazzino e delle vendite, alla creazione e sviluppo degli intangibles, etc.), coordinate attraverso gruppi di lavoro che operano in modo trasversale a più giurisdizioni in una struttura matriciale rispetto ai tradizionali organi di governo delle local entities. Queste tendenze alla frammentazione esplicano significativi effetti anche in ambito fiscale facilitando il tax planning, soprattutto dove possono sfruttare le differenze di qualificazione delle fattispecie impositive nei vari ordinamenti; ed è su questo territorio che l’armonizzazione che permea in ogni profilo il Pillar 2 può esplicare al massimo i suoi effetti benefici.

 

[1] O, in alternativa, alcune sue componenti “mobili” (i c.d. “passive income”) selezionate in ragione delle differenti categorie giuridiche di appartenenza.

[2] E per tale iter portare il livello di tassazione degli extra profitti di tale giurisdizione al livello minimo comune del 15%.

[3] Oltre che, a prescindere dalla presenza o meno di una consociata o branch sul territorio nazionale, dai dati forniti dagli utilizzatori e che interagiscono dai mercati “multi-sided” di tutto il mondo.

[4] Non ci sembra quindi del tutto condivisibile la lettura del Pillar 2 come una sorta di back stop che si affianca ai regimi CFC dei vari Stati – per loro natura non coordinati tra loro – alle regole di transfer pricing e agli altri principi di sostanza, trasparenza e coerenza implementati nelle altre Actions del BEPS, rimediando alle loro insufficienze rispetto agli obiettivi di contrasto dell’erosione delle basi imponibili e del distoglimento di profitti.

[5] A tal fine è necessaria la collaborazione tra le singole giurisdizioni che dovranno condividere principi e regole quali la determinazione dell’ETR in base al rapporto fra le covered taxes e il reddito delle CE della giurisdizione determinato sulla base di Principi contabili condivisi e con una serie di variazioni altrettanto condivise.

[6] Con determinati limiti con riferimento ai passive income oggetto di imputazione: in particolare, sono allocate alla CE le CFC taxes dovute sui passive income in misura pari al minore tra l’effettivo ammontare delle imposte dovute su tali passive income e l’importo che deriva dalla applicazione del livello minimo del 15%.

[7] Assonime n. 30/2022 ove è stato sottolineato che proprio a seguito dell’introduzione della QDMT e del rovesciamento della “rule of order” che ne è derivato – vi è il rischio che la disciplina CFC venga ulteriormente allargata e generalizzata fino a rischiare di compromettere anche la capacità dei Paesi delle società controllate di concedere agevolazioni finalizzate ad attrarre attività reali.

[8] Merita fare un parallelo con il problema della compatibilità delle CFC rules con le Convenzioni contro le doppie imposizioni: vi era chi sosteneva che queste regole avrebbero attribuito il diritto di tassare i profitti realizzati all’estero da un’impresa non residente e che per ciò stesso si dovevano ritenere in conflitto con le Convenzioni contro le doppie imposizioni (in particolare, con l’articolo 7, § 1, modello Ocse in base al quale un’impresa residente in un Paese non può essere assoggettata a tassazione in un altro Paese tranne che nel caso in cui non vi operi tramite una stabile organizzazione); si giunse alla conclusione che la CFC è espressione del potere sovrano di ciascun ordinamento di tassare i propri residenti secondo regole proprie; di tassare, cioè, non la società partecipata residente in altro Stato, ma gli utili di pertinenza del socio controllante.

[9] Al riguardo si veda l’interessante circolare Assonime n. 19/2019.

[10] Il petrolio del terzo millennio.

[11] La vigente, palesemente obsoleta, nozione di stabile organizzazione collegata alla presenza fisica dell’impresa consente oggi alle imprese multinazionali dell’economia digitale di ridurre al minino il peso della tassazione negli Stati in cui sviluppano il loro mercato.

[12] Tutt’al più, avvalendosi di strutture particolarmente “leggere” in specifiche giurisdizioni nelle quali, magari in cambio di qualche investimento, sono riuscite a ottenere ruling ad personam particolarmente vantaggiosi.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “Il reddito di impresa.