29 Dicembre 2014

Prestazioni di servizi e vies: obbligo sostanziale? – parte 2

di Maurizio Coser
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In un precedente intervento di ECnews sono stati esaminati i termini e le condizioni al verificarsi dei quali un soggetto passivo italiano sia obbligato ad iscriversi al VIES, alla luce delle recenti modifiche apportate dal decreto semplificazioni, in seguito alle quali la volontà di effettuare operazioni intracomunitarie, espressa all’atto della richiesta di attribuzione della partita Iva ovvero successivamente determina l’immediata inclusione del soggetto nella banca dati VIES.

L’analisi ha lo scopo di verificare se la mancata iscrizione a detto archivio possa avere conseguenze sostanziali sul regime di tassazione delle operazioni poste in essere dallo stesso, con particolare attenzione alle prestazioni di servizi scambiate tra soggetti passivi UE, qual ambito in cui sussistono i principali dubbi.

Nella prima parte dell’intervento è stata analizzata l’interpretazione letterale dei riferimenti normativi, nel presente intervento si intende invece risalirne alla ratio, facendo riferimento alla normativa comunitaria, nonché svolgere alcune considerazioni di ordine pratico ed esaminare l’evoluzione della Giurisprudenza in materia

Appurato che la normativa italiana non prevede esplicitamente un obbligo di iscrizione in elenchi di alcun tipo per l’effettuazione di prestazioni di servizi a favore di committenti non residenti, né la necessità di una autorizzazione, è bene verificare le previsioni della normativa comunitaria.

L’articolo 18 del Regolamento di esecuzione (UE) del Consiglio, n. 282/2011 del 15.03. 2011 (richiamato, quale norma comunitaria, dalla C. M. n. 39/E/2011 a sostegno della tesi dell’Agenzia), recante disposizioni di applicazione della Direttiva n. 2006/112/CE relativa al sistema comune di imposta sul valore aggiunto, prevede che lo status di soggetto passivo debba essere verificato, dal prestatore, controllando che il numero di identificazione Iva comunicatogli dal committente risulti valido, utilizzando le modalità di cui all’art. 31 del regolamento (CE) n. 904/2010 del Consiglio, del 07.10. 2010, ovvero ricevendo “conferma, per via elettronica, del numero di identificazione IVA di una data persona”.

Da ciò emerge che, ai fini dell’applicazione dell’art. 7-ter del D.P.R. n. 633/1972, nessun adempimento comunitario è richiesto al prestatore (diverso dal fatto di essere titolare di partita IVA, in quanto soggetto passivo IVA), allorquando questi intenda porre in essere una prestazione nei confronti di altro soggetto passivo UE (rectius, non residente, in generale); ancor meno, in capo al prestatore, è prevista la necessità di una qualche iscrizione in elenchi particolari, cui subordinare l’autorizzazione all’esecuzione della prestazione medesima.

Non solo: lo stesso art. 18 sopra richiamato prevede che, se il committente “non ha ancora ricevuto un numero individuale di identificazione Iva”, il prestatore è legittimato ad attribuirgli lo status di “soggetto passivo (e quindi ad eseguire nei suoi confronti prestazioni fuori campo Iva ex art. 7-ter) utilizzandoqualsiasi altra prova attestante che quest’ultimo è un soggetto passivo o una persona giuridica non soggetto passivo tenuta all’identificazione ai fini dell’IVA”, operando “una verifica di ampiezza ragionevole dell’esattezza delle informazioni fornite dal destinatario applicando le normali procedure di sicurezza commerciali, quali quelle relative ai controlli di identità o di pagamento”.

L’Agenzia delle Entrate, pur prendendo atto di tale precisazione, la ritiene applicabile ai “soli Paesi nei quali l’attribuzione del numero individuale di identificazione Iva non avviene contestualmente alla richiesta del contribuente (come invece avviene in Italia).

Ebbene, proprio tale considerazione mette in luce, sempre ad avviso di chi scrive, l’errore in cui incorre l’Agenzia nel sostenere l’esistenza di un doppio adempimento in capo al soggetto passivo che intenda porre in essere “operazioni intracomunitarie”, ovvero, dapprima, la necessità di vedersi attribuito un codice identificativo e, successivamente, quella di ricevere una autorizzazione a porre in essere (ovvero a ricevere) prestazioni di servizi con controparti UE.

La ratio della norma italiana, secondo quanto riportato nelle motivazioni del Provvedimento Direttoriale n. 188381/2010 (con il quale sono stati stabiliti “Criteri e modalità di inclusione delle partite IVA nell’archivio informatico dei soggetti autorizzati a porre in essere operazioni intracomunitarie”), è riconducibile alla normativa comunitaria. “La normativa nazionale recepisce le indicazioni dell’Anti tax fraud strategy (ATFS) expert group (Gruppo di esperti antifrode in seno alla Commissione europea), che ha sottolineato l’importanza dell’affidabilità delle informazioni contenute nelle banche dati degli Stati membri relative alle posizioni Iva, individuando altresì gli elementi di criticità presenti nella normativa degli Stati membri relativa alle modalità di attribuzione e cancellazione dei numeri identificativi Iva”.

Tali indicazioni sono state recepite nel Regolamento (UE) n. 904/2010: gli articoli 22 e 23 prevedono che gli Stati membri adottino le misure necessarie per garantire che i dati forniti da soggetti passivi e da persone giuridiche che non sono soggetti passivi, per registrarsi ai fini dell’Iva, siano, a loro giudizio, completi e esatti. Il regolamento prevede altresì che gli Stati membri attuino procedure di verifica in base ai risultati della loro valutazione del rischio.

Ma, a questo proposito, è appena il caso di osservare come il citato Regolamento riguardi la “cooperazione amministrativa e la lotta contro la frode in materia d’imposta sul valore aggiunto” (come recita la sua rubrica): ora, mentre è ben evidente che le frodi Iva transnazionali possano riguardare le cessioni di beni (nelle premesse al citato regolamento vengono richiamate, non a caso, le c.d. “frodi carosello”), ben più improbabile ed inverosimile è ipotizzare una frode Iva in materia di prestazioni di servizi.

Ciò considerato, in via meramente normativa, un paio di considerazioni di ordine pratico:

  • seguendo la tesi dell’Agenzia, un agente di commercio italiano non iscritto al VIES dovrebbe assoggettare ad Iva italiana le provvigioni fatturate ad un mandante, ad esempio, francese: evidentemente, il mandante francese sarà indotto a rivolgersi ad altro agente, in quanto l’Iva italiana così assolta dovrebbe essere chiesta a rimborso con la procedura di cui all’art. 38-bis2 del D.P.R. n. 633/1972, con aggravio di costi ed allungamento dei tempi; ma ciò è in chiaro contrasto con la finalità antidistorsiva della concorrenza che informa la disciplina Iva UE e con il principio di neutralità dell’imposta su cui essa si fonda;
  • sempre seguendo la tesi dell’Agenzia, si arriverebbe all’evidente paradosso per cui, se un soggetto passivo italiano non iscritto al VIES ricevesse prestazioni da un fornitore francese si vedrebbe addebitata l’Iva francese, ma se ricevesse la stessa prestazione da un residente in un paese extra-UE (il quale, verosimilmente, non sa neppure cosa sia l’archivio VIES), non si vedrebbe addebitata l’imposta estera, dato che le linee guida Ocse in materia di Iva internazionale (documento del febbraio 2013) individuano il principio di tassazione del paese del committente quale principio base per soddisfare l’obiettivo di neutralità della VAT. Ebbene, in tali casi il committente italiano dovrebbe procedere all’assolvimento dell’Iva in reverse charge, non essendo applicabile quanto precisato nella R.M. n. 42/E/2012, secondo cui “l’acquirente italiano non regolarmente iscritto al VIES, ricevuta la fattura senza IVA dal fornitore europeo, non deve procedere alla doppia annotazione della stessa nel registro delle fatture emesse e nel registro degli acquisti, non essendo applicabile il meccanismo  dell’inversione contabile (cfr. art. 47 del DL n. 331 del 1993); tale comportamento, infatti, determina una illegittima detrazione dell’Iva con applicazione della sanzione di cui all’art. 6, comma 6, del Dlgs. n. 471 del 1997”. Si giungerebbe quindi al paradosso per cui lo stesso soggetto passivo italiano potrebbe essere abilitato a ricevere prestazioni da soggetti extra-UE ed assolvere l’Iva in reverse charge, ma non abilitato a ricevere prestazioni da soggetti UE, dovendo quindi scontare l’Iva domestica del paese UE del prestatore…

Da ultimo si consideri l’evoluzione della giurisprudenza ed, in primis, della giurisprudenza comunitaria: con la recente sentenza C-273/11, emessa in data 06.09.2012, la Corte di giustizia UE di fatto mette in dubbio la posizione dell’Agenzia delle Entrate italiana, che nega la possibilità di effettuare, da parte del soggetto passivo Iva, operazioni intracomunitarie in mancanza della preventiva iscrizione al VIES. Infatti il giudice comunitario, esprimendosi peraltro in merito ad una cessione intracomunitaria, afferma, ancorché con riferimento alla cancellazione piuttosto che alla iscrizione al VIES, che “l’esenzione di una cessione intracomunitaria, ai sensi dell’art. 138, paragrafo 1, della direttiva 2006/112, come modificata dalla direttiva 2010/88, non può essere negata al venditore per la sola ragione che l’amministrazione tributaria di un altro Stato membro ha proceduto a una cancellazione del numero d’identificazione IVA dell’acquirente che, sebbene verificatasi dopo la cessione del bene, ha prodotto effetti, in modo retroattivo, a una data precedente a quest’ultima”.

Ancora, nella causa C-324/11 la Corte UE si è concentrata sulla nozione di “soggetto passivo” delineata dall’art. 9, par. 1 della Direttiva 2006/112. Secondo la Corte, si considera “soggetto passivo”, ai sensi della citata disposizione, chiunque eserciti, in modo indipendente e in qualsiasi luogo, un’attività economica, a prescindere dallo scopo o dai risultati dell’attività medesima. Nel testo di tale sentenza viene messo in evidenza come la nozione di “soggetto passivo” sia definita in modo ampio, sulla base di circostanze di fatto, non risultando che lo status di soggetto passivo dipenda da una qualsivoglia autorizzazione o licenza concessa dall’Amministrazione ai fini dell’esercizio di un’attività economica.

Anche la Giurisprudenza nazionale riporta orientamenti analoghi: con la sentenza n. 21183 del 08.10.2014, la Cassazione ha riaffermato il principio secondo cui il regime di non imponibilità delle cessioni intracomunitarie non viene meno per l’errata indicazione della partita Iva dell’acquirente estero, se sono rispettati i requisiti sostanziali della movimentazione fisica dei beni dallo Stato del cedente a quello del cessionario e della natura imprenditoriale o professionale del cessionario stesso (trattasi, peraltro, della conferma di un orientamento ormai consolidato – cfr. sentenze nn. 22127 del 27.09.2013 e 17254 del 29.07.2014).

In definitiva, quello che è possibile concludere è che, anche per quanto concerne l’analisi della normativa comunitaria, della giurisprudenza, nonché per mere evidenze logiche di ordine pratico, nelle ipotesi di prestazioni di servizi, l’iscrizione al VIES non dovrebbe rappresentare un presupposto per l’applicazione dell’art. 7-ter del D.P.R. n. 633/1972, in quanto i principi della tassazione nel luogo del committente e di neutralità dell’imposta si ritiene prevalgano sulle conseguenze sostanziali che l’eventuale mancata iscrizione all’archivio VIES dovrebbe avere sul regime di applicazione dell’imposta.