11 Marzo 2014

Non rileva ai fini fiscali l’autoconsumo di pasti e bevande da parte dei titolari di ristoranti e bar e dei loro dipendenti

di Davide David
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Nei ristoranti e nei bar è del tutto abituale il consumo di pasti e bevande da parte del titolare e dei dipendenti.

Da ciò il dubbio se e in che termini tale consumo possa avere un qualche rilievo impositivo, per quanto concerne sia l’IVA che le imposte sui redditi.

La questione viene di solito affrontata in occasione di accertamenti induttivi o da studi di settore, per richiedere che i ricavi determinati in via induttiva o presuntiva vengano assunti al netto dell’ammontare “collegato” ai consumi del titolare e dei dipendenti.

Peraltro, vi sono anche dei contribuenti che, diligenti e fiduciosi nella certezza del diritto, usano segnare giornalmente (di solito in una colonna a parte del registro dei corrispettivi) l’importo riferibile alle consumazioni giornaliere fatte dal titolare e ai dipendenti. Tale importo non viene preso in considerazione ai fini della liquidazione dell’IVA e del calcolo delle imposte sui redditi, nella giusta convinzione che non abbia rilevanza fiscale.

In relazione ai suddetti aspetti si vuole fare il punto della situazione su questa forma di autoconsumo e sulle relative conseguenze nell’ambito degli accertamenti induttivi e presuntivi nonché sul “rischio” di eventuali riprese a tassazione degli importi annotati extracontabilmente nel registro dei corrispettivi (o in altra documentazione).

Per quanto concerne l’IVA occorre prima di tutto considerare che “le somministrazioni di alimenti e bevande” costituiscono, in tale ambito impositivo, delle prestazioni di servizi, giusto quanto espressamente statuito dall’art. 3, c. 2, n. 4), del D.P.R. 633/1972.

Il comma 3 del medesimo art. 3 statuisce poi che le prestazioni indicate nei primi due commi, quindi anche le “le somministrazioni di alimenti e bevande”, costituiscono prestazioni di servizi solo se di valore superiore a euro 25,82, anche se effettuate per l’uso personale o familiare dell’imprenditore ovvero per altre finalità estranee all’esercizio dell’impresa.

Ai fini di cui trattasi il valore della singola somministrazione è dato dall’ammontare delle spese sostenute per la relativa effettuazione, quando rilevanti ai fini IVA (costo delle materie prime, consumo di energia, ecc.), giusto quanto statuito dall’art. 13, c. 2, lett. c), del D.P.R. 633/1972.

Per quanto sopra è quindi possibile concludere che l’autoconsumo di alimenti e bevande da parte dei dipendenti e del titolare non rileva ai fini IVA se di valore non superiore a euro 25,82 (per singola somministrazione e nell’accezione di cui sopra).

Sul fronte dell’IVA assolta sugli acquisti di beni e servizi utilizzati per la preparazione dei pasti e delle bevande è da ritenere che non operi la indetraibilità prevista per gli acquisti afferenti operazioni esenti o non soggette all’imposta (ex art. 19, c. 2, del D.P.R. 633/1972). Anche perché altrimenti non avrebbe senso la previsione, contenuta nell’art. 3, c. 3, del D.P.R. 633/1972, ai sensi della quale le prestazioni di servizi effettuate a titolo gratuito rilevano ai fini IVA solo se l’imposta afferente agli acquisti di beni e servizi relativi alla loro esecuzione sia detraibile.

Nell’ambito del reddito di impresa le fattispecie di autoconsumo rilevanti ai fini impositivi appaiono essere solo quelle riguardanti le cessioni di beni. Infatti, l’art. 85 del TUIR ricomprende specificatamente tra i ricavi (al comma 2) “il valore normale dei beni di cui al comma 1 (e non anche le prestazioni di servizi di cui al medesimo comma 1, ndr) assegnati ai soci o destinati a finalità estranee all’esercizio dell’impresa”.

Occorre quindi chiedersi se nell’ambito del reddito di impresa la somministrazione di pasti e bevande debba essere ricompresa tra le cessioni di beni (o meglio, tra le operazioni “miste”, costituite inscindibilmente da prestazioni di servizi e cessioni di beni) ovvero tra le prestazioni di servizi “pure”; considerato che il TUIR non contiene una norma analoga a quella dell’art. 3 del D.P.R. 633/1972, ai sensi della quale le suddette somministrazioni sono sempre considerate prestazioni di servizi “pure”.

Personalmente si è dell’opinione che, in particolare per quanto concerne i pasti, ma anche per le bevande, la somministrazione configuri oggettivamente una prestazione di servizi, con la conseguente irrilevanza reddituale del relativo autoconsumo.

Ed in ogni caso, almeno per quanto concerne la somministrazione di pasti e bevande ai dipendenti nelle ore di lavoro, trattasi di una scelta imprenditoriale da ricondurre alla volontà di rendere più efficiente l’attività lavorativa e non a finalità estranee all’esercizio dell’impresa. Per tale motivo, indipendentemente dal fatto che trattasi di cessione di beni o di prestazione di servizi, comunque la somministrazione dei pasti e delle bevande non dovrebbe avere rilevanza reddituale.

La irrilevanza sia in ambito IVA che in ambito reddituale del consumo di pasti e bevande da parte del titolare e, a maggior ragione, da parte dei dipendenti, è stata del resto riconosciuta in diverse sentenze, sia di merito che di legittimità.

Vedasi, tra le tante, la sentenza della CTR di Genova n. 108 del 18.06.2010, con la quale i giudici liguri, relativamente ad un accertamento di tipo induttivo nei confronti di un ristorante (basato sulla quantità di materie prime impiegate nella preparazione di pasti e bevande), hanno affermato che l’Ufficio doveva tenere conto, a riduzione dei ricavi accertati, “dell’autoconsumo riconosciuto abitualmente ai dipendenti”.

Vedasi anche la sentenza della CTR di Milano n. 58 del 9.04.2013, con la quale i giudici lombardi hanno riconosciuto l’irrilevanza ai fini reddituali dei “ricavi corrispondenti al valore dei pasti somministrati ai dipendenti e collaboratori e per autoconsumo (in senso conforme, tra le diverse altre, la sentenza n. 297 del 19.11.2009 della CTR di Genova e la sentenza n. 1 del 10.01.2012 della CTR di Torino).

Si veda inoltre la sentenza della Corte di Cassazione n. 19077 del 29.09.2005, con la quale, sempre in relazione ad un accertamento induttivo basato sul consumo di materie prime per la ristorazione, è stato affermato che non può essere attribuito alcun valore presuntivo di redditività ai beni destinati a confezionare i pasti per i dipendenti e che le relative somministrazioni non possono essere comprese tra gli elementi positivi di reddito.

Peraltro, anche l’Amministrazione finanziaria ha riconosciuto l’irrilevanza ai fini fiscali dell’autoconsumo da parte del titolare e dei dipendenti. Infatti, nella circolare n. 175/E del 5.08.1999, contenente le metodologie di controllo per bar e ristoranti, nel definire come deve essere operata la ricostruzione del numero delle somministrazioni effettuate sulla base dei consumi di materie prime, è esplicitamente indicato che “dovranno essere scorporati l’autoconsumo riferibile ai dipendenti ed al titolare”.

Si può quindi concludere affermando che, nell’ambito di un accertamento di tipo analitico-induttivo o da studi di settore, l’ammontare di ricavi determinato sulla base delle materie prime e dei servizi utilizzati per la preparazione di pasti e bevande va ridotto della parte riferibile alle somministrazioni rese al titolare e ai dipendenti (autoconsumo).

A maggior ragione, se il titolare usa annotare extracontabilmente l’autoconsumo (a sua dimostrazione e quantificazione), l’Ufficio non può riprendere a tassazione quanto annotato, non trattandosi di valori rilevanti ai fini tributari (né per quanto concerne l’IVA né per quanto riguarda le imposte sui redditi).