6 Ottobre 2023

Natura del processo tributario e confini del potere giurisdizionale

di Angelo Ginex
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La scheda di FISCOPRATICO

L’evoluzione della giustizia tributaria è stata segnata, a partire dal riconoscimento delle commissioni tributarie (ora Corti di Giustizia tributaria) quali organi giurisdizionali, da due direttrici di fondo:

  • la prima, costituita dal progressivo “adeguamento” del processo tributario al processo civile;
  • la seconda, consistente nel continuo ampliamento della cognizione della giurisdizione tributaria.

Infatti, la natura nonché il contenuto del processo tributario, e quindi anche della relativa azione di impugnazione, sono stati oggetto di un lungo dibattito, in cui si è discusso se il giudice tributario si dovesse limitare a decidere sulle richieste contenute nel ricorso introduttivo del giudizio e, nel caso, procedere al mero annullamento dell’atto impositivo impugnato, oppure se potesse finanche sostituirsi all’Ente impositore sino ad arrivare alla rettifica della pretesa impositiva.

La Corte di Cassazione, con un orientamento che ormai può ritenersi consolidato, ha più volte affermato che il processo tributario è annoverabile tra quelli di “impugnazione-merito”, in quanto consente al contribuente, con l’azione di impugnazione dell’atto impositivo viziato, di devolvere alla cognizione del giudice l’intero rapporto tributario.

Sotto un profilo pratico, le conseguenze di tale orientamento giurisprudenziale non sono di poco conto. Si consideri che esso, trovando fondamento nella c.d. teoria dichiarativa (secondo cui gli atti dell’amministrazione finanziaria avrebbero efficacia dichiarativa di obbligazioni già sorte e quindi, in questa prospettiva, il processo tributario sarebbe riconducibile al modello di un processo di “impugnazione-merito”), giunge alla conclusione che le azioni esperibili dal contribuente sarebbero di accertamento negativo del credito vantato dalla stessa Amministrazione finanziaria, oppure di accertamento del diritto al rimborso di somme indebitamente versate.

Come noto, tale tesi si contrappone alla c.d. teoria costitutiva, secondo cui, invece, gli atti impositivi avrebbero efficacia costitutiva dell’obbligazione tributaria, e quindi il processo tributario sarebbe riconducibile al paradigma del processo di “impugnazione-annullamento”. Si tratterebbe, in sostanza, di un procedimento in cui il contribuente contesterebbe la regolarità degli atti emessi nei suoi confronti, e che sfocerebbe in una pronuncia volta, non all’accertamento nel merito della pretesa, bensì esclusivamente alla sussistenza o meno dei vizi denunciati.

È acclarato che il contribuente abbia la possibilità di contestare tanto la legittimità formale dell’atto impugnato, ovverosia la violazione dei requisiti formali, quanto la sua legittimità sostanziale, e quindi l’an oppure il quantum della pretesa tributaria, ovverosia la non conformità, per violazione di diritto o di fatto, della pretesa erariale alle regole concernenti il presupposto, la base imponibile, le aliquote, le detrazioni, i crediti di imposta oppure le agevolazioni, specifiche per ogni tipologia di imposta.

In questa prospettiva, quindi, il processo tributario non garantisce soltanto una tutela sostitutiva nei confronti degli atti emessi dall’ente impositore, ma rappresenta anche lo strumento per far valere situazioni giuridiche diverse dal diritto all’annullamento dell’atto, che portino il giudice, forte del potere di indagine che l’ordinamento gli riconosce sul rapporto tributario, ad esaminare la pretesa nonché ad operare eventualmente, se vi ricorrono i presupposti, una rideterminazione dell’imposta, entro i limiti delle censure mosse dalla parte.

Sul punto, si rinviene una recente pronuncia della Corte di Cassazione a ulteriore conferma di quanto sopra evidenziato (Cassazione n. 26978/2023), ove si afferma che il giudice tributario, chiamato a rideterminare il valore delle aree edificabili ai fini dell’imposta comunale sugli immobili (Ici), sempre nei limiti tracciati dai P.R.G., non possa esimersi da un proprio “giudizio estimatorio”rispetto alla stima fattene negli atti impositivi impugnati.

Anche in questo caso, quindi, il giudice di merito avrebbe dovuto spingersi sino a determinare il valore venale in comune commercio delle aree edificabili in contestazione, verificando che l’ente comunale avesse correttamente ricavato tali valori in base ai parametri vincolanti tassativamente previsti dall’articolo 5, comma 5, D.Lgs. 504/1992, avuto riguardo, per le aree fabbricabili.

  • alla zona territoriale di ubicazione;
  • all’indice di edificabilità;
  • alla destinazione d’uso consentita;
  • agli oneri per eventuali lavori di adattamento del terreno necessari per la costruzione;
  • ai prezzi medi rilevati sul mercato della vendita di aree aventi analoghe caratteristiche.

In tale contesto, è doveroso evidenziare, tuttavia, che accade di frequente che i giudici si limitino invece -in contrasto con l’ormai pacifica natura del processo tributario – a constatare l’esistenza o meno del vizio, lamentato dal contribuente, relativo al provvedimento impugnato e, per l’effetto, ad emettere una sentenza che, quasi scevra da argomentazioni di merito, si riduca al mero rigetto delle domande di parte ricorrente oppure, nella più fortunata delle ipotesi, al semplice annullamento dell’atto viziato, contravvenendo così al dovere di statuire sull’assetto del rapporto tributario controverso, nonché di riquantificare l’imposta effettivamente dovuta dal contribuente.