29 Novembre 2021

L’imposta evasa ancora alle prese con il “doppio binario”

di Luigi Ferrajoli
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La scheda di FISCOPRATICO

Il reato di dichiarazione infedele è previsto e punito dall’articolo 4 D.Lgs. 74/2000, che costituisce il quadro normativo di riferimento in ordine ai delitti tributari.

La condotta sanzionata consiste nell’indicazione, in una delle dichiarazioni annuali relative alle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, di elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo oppure elementi passivi inesistenti, qualora l’imposta evasa sia superiore ad euro centomila e l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi inesistenti, sia superiore al dieci per cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione o, comunque, superiore a euro due milioni.

Il comma 1-bis della fattispecie in esame stabilisce che “ai fini dell’applicazione della disposizione del comma 1, non si tiene conto della non corretta classificazione, della valutazione di elementi attivi o passivi oggettivamente esistenti, rispetto ai quali i criteri concretamente applicati sono stati comunque indicati nel bilancio ovvero in altra documentazione rilevante ai fini fiscali, della violazione dei criteri di determinazione dell’esercizio di competenza, della non inerenza, della non deducibilità di elementi passivi reali”.

Il Legislatore ha voluto dunque escludere dalla rilevanza penale gli elementi oggettivamente esistenti, seppure non correttamente classificati o valutati, e gli elementi passivi reali, anche se non inerenti o non deducibili, per una evidente questione afferente l’elemento psicologico richiesto per l’integrazione dell’illecito, ossia il dolo specifico di evadere l’imposta.

La questione non è di poco conto e il Giudice penale viene sempre più spesso chiamato a valutare se il comportamento dell’imputato sia sussumibile in tale errata valutazione oppure se la condotta sia stata posta in essere con lo specifico fine di aggirare le norme tributarie di riferimento.

Con la recente sentenza n. 24142/2021, la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi a tale proposito, a fronte di un ricorso proposto dal legale rappresentante di una società avverso il provvedimento di sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta emesso nei confronti della società stessa e di sequestro preventivo, finalizzato alla confisca per equivalente, disposto nei confronti del ricorrente in via personale, quale autore del reato.

Nel caso di specie, il Giudice di Legittimità ha accolto il ricorso, limitatamente al sequestro disposto nei confronti del legale rappresentante, ritenendo fondate le relative doglianze.

In particolare, la Suprema Corte ha evidenziato che, in tema di reati tributari – e dunque in via generale – il Giudice, per determinare l’ammontare dell’imposta evasa, deve effettuare una verifica che tenga senz’altro in conto le specifiche regole stabilite dalla legislazione fiscale per quantificare l’imponibile ma, in ragione delle limitazioni derivanti dalla diversa finalità dell’accertamento penale, deve considerare i costi non contabilizzatisolo in presenza, quanto meno, di allegazioni fattuali, da cui desumere la certezza o, comunque, il ragionevole dubbio della loro esistenza, non assumendo rilievo, nella valutazione sulla divergenza dei valori indicati in contabilità, la mera violazione dei criteri di competenza e di inerenza di ricavi e di costi oggettivamente esistenti (cfr., per tutte, Sez. 3, n. 8700 del 16/01/2019, Hermann, Rv. 275856 – 01)”.

Contrariamente a tale principio, l’ordinanza impugnata si era limitata a sostenere, per alcune voci, l’inesistenza dei costi omettendo qualsivoglia verifica in ordine alla sussistenza delle allegazioni difensive circa l’oggettiva esistenza di alcune delle poste, indicate quali costi nella documentazione contabile.

Più in particolare, il ricorrente aveva dedotto che la Guardia di Finanza aveva rideterminato il reddito con la ripresa di elementi passivi non deducibili per difetto dei requisiti dell’inerenza e della competenza, non per la loro inesistenza oggettiva o soggettiva.

Tuttavia, il provvedimento de quo non si era confrontato con tali elementi, incorrendo pertanto in una mancanza di specifica risposta in ordine al superamento della soglia di punibilità prevista dalla norma sanzionatoria in ordine all’entità dell’imposta evasa, e quindi in relazione alla sussistenza del fumus delicti per cui la misura cautelare reale era stata disposta.

Un esempio di tale error risiedeva, ad esempio, nella voce relativa ai compensi degli amministratori, presenti nella contabilità della società, che sarebbero risultati costi effettivi, ma ritenuti non utili alla decisione in presenza di una generica valutazione di inattendibilità delle scritture contabili.

In sostanza, ad avviso della Cassazione, “l’ordinanza impugnata elude una puntuale motivazione sul tema del superamento delle soglie delle imposte evase e finisce, pertanto, per offrire una motivazione meramente apparente e, quindi, censurabile nella presente sede”.