6 Giugno 2014

Indagini finanziarie: qualcosa si muove …

di Maurizio Tozzi – Comitato Scientifico Master Breve 365
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Nell’attesa che qualcuno, nelle posizioni che contano, prenda atto che le indagini finanziarie, così come attualmente concepite, possono divenire una vera “arma impropria” se affidata nelle mani di funzionari indirizzati (fuorviati) dal “budget”, sopraggiunge una sentenza che a parere del sottoscritto è illuminata e davvero ben motivata. Soprattutto, la sentenza che si intende commentare è razionale in rapporto alla normativa vigente, agli obblighi documentali e all’onere probatorio. Trattasi di una sentenza della CTP di Ancona, la n. 281/04/14, pronunciata il 28 febbraio 2014 e depositata il 4 aprile 2014.

Il caso è emblematico, ma nelle ipotesi di indagini finanziarie purtroppo frequente. Il contribuente accertato è un professionista, fisioterapista, in contabilità semplificata e che peraltro riceve pagamenti prevalentemente in contanti. Le domande che qualsiasi comune mortale si pone al riguardo sono le seguenti:

  1. Se si rispetta la normativa sull’utilizzo del contante, possono sussistere contestazioni fiscali?
  2. Se si procede al versamento di importi in cadenze periodali diverse, si hanno conseguenze, dato che sul piano normativo non sussistono obblighi specifici?
  3. Dato che la persona fisica naturalmente trattiene somme per le proprie esigenze, sia per pagare costi riferiti all’attività, sia per oneri personali, è necessaria o meno una puntuale documentazione?

Le domande potrebbero continuare, ma preferiamo fermarci. La deduzione razionale e, deve dirsi, civile, è che rispetto alle suesposte domande la sola risposta sia negativa. Rispettando la norma sull’utilizzo del contante non devono sussistere problemi. Nulla consegue nel caso di versamenti in banca di importi in periodi diversi e nemmeno è vietato usare le somme ricevute in contanti. D’altra parte un minimo di logica dovrebbe usarsi. Se incasso dal lunedì al venerdì 800,00 euro, con relativa documentazione rappresentata dalle ricevute emesse, decido di tenermi 300,00 euro per le mie spese personali del week end, attendo altri incassi della settimana successiva (magari 500,00 euro), ne trattengo ancora 300,00 e dunque vado a versare in banca 700,00 euro, non dovrebbe sorgere il minimo problema. Nell’ordine:

  1. Non esiste una norma che obbliga ad un versamento tempestivo del contante incassato;
  2. Non ho violato l’utilizzo del contante;
  3. Ho versato comunque una somma inferiore a quelle incassate e documentate, nettizzate di ragionevoli importi trattenuti per la vita personale (appare ovvio dire che la sola situazione sospetta è rappresentata, nell’esempio di sopra, dal versamento di un importo maggiore di quello incassato, ad esempio pari, in ordine al periodo temporale considerato, a 2.000,00 euro).

Se questa è la logica, la pratica professionale delle indagini finanziarie non sempre conduce ad applicazioni razionali da parte degli uffici accertatori.

Nel caso analizzato dalla CTP di Ancona, pur se il fisioterapista accertato era stato in grado di documentare, in maniera compiuta, tutte le movimentazioni del conto corrente, l’Ufficio ha ipotizzato incassi a nero per un importo complessivo di 14.750,00 euro, riconducibili, in considerazione delle tariffe applicate dal fisioterapista, a 656 clienti. Questa, si consenta, la patetica motivazione: “gli importi delle ricevute indicate non coincidono mai con quelli dei versamenti (….) l’Ufficio ha deciso di procedere come di seguito rappresentato (….) con riferimento al versamento dei contanti è stata verificata (….) la presenza di incassi per un importo corrispondente risalendo a ritroso fino al versamento precedente o, in mancanza, nei dieci giorni precedenti”. Insomma, l’Ufficio pretende:

  • Una sorta di corrispondenza degli incassi ai versamenti. In sincerità, allora, servirebbe una disposizione normativa che ponga l’obbligo di versare per intero gli incassi ricevuti, con conseguente divieto di trattenere importi;
  • Che comunque questa corrispondenza sia verificabile con esattezza o nell’intervallo tra diversi versamenti o, comunque, in un arco temporale di dieci giorni. Dove sia presente nella norma questo riferimento temporale non è dato sapere. È evidente però che stante in tal modo le cose bisogna conoscere bene gli orari di chiusura dell’istituto di credito, evitando i versamenti il venerdì pomeriggio, altrimenti qualsiasi imprevisto è pericolosissimo.

Un accertamento simile, forte della presunzione legale relativa di fondo delle indagini finanziarie, è davvero antipatico. La difesa è stata perfetta. Riconduzione dei versamenti alla documentazione emessa. Dimostrazione che gli importi versati sono sempre inferiori a quelli incassati, con la differenza giustificata dalle esigenze personali. Evidenziazione delle problematiche suesposte, ossia che non sussistono affatto obblighi specifici contabili e temporali circa gli adempimenti. Dimostrazione, ancora, della totale infondatezza delle presunzioni operate dall’Ufficio, laddove si sarebbero dovute configurare addirittura 182 prestazioni lavorative nell’arco di soli 8 giorni (vale a dire 23 al giorno, ossia un comportamento da record se non altro per il non riposare mai).

Tralasciando le motivazioni contenute nelle deduzioni dell’Ufficio, basate sull’altrettanto patetico assunto che l’accertamento bancario richiede una difesa puntuale e non asserzioni generiche quale quella secondo cui la differenza tra gli incassi e i versamenti è dovuta a somme trattenute per esigenze personali (non è dato sapere se ciò sia vietato da qualche disposizione, allora), sono assolutamente importanti le conclusioni dell’organo giudicante, il quale ha evidenziato come:

  1. Sul fronte difensivo sia rilevante quanto affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 25502 del 2011, secondo cui alla presunzione legale è possibile contrapporre una ricostruzione presuntiva da parte del contribuente, comunque sottoposta al vaglio di attendibilità del giudice. In sostanza, il contribuente può dimostrare che la sua conclusione logica (ossia che gli importi derivano dagli incassi al netto delle somme trattenute), sia più attendibile di quella dell’ufficio (nel caso di specie, non è credibile ipotizzare 182 prestazioni in 8 giorni);
  2. La cadenza temporale stabilita nell’accertamento (10 giorni antecedenti al versamento), non corrisponde ad alcun obbligo normativo;
  3. Non sussiste affatto l’obbligo di versare in maniera precisa gli importi introitati.

Esplicativa è la seguente parte della motivazione della sentenza: “(….) risulta assurdo pretendere, come fa l’ufficio, di trovare un preciso riscontro fra il versato e l’incassato, quando quest’ultimo risulta ampiamente superiore al primo. Basterà quindi considerare che il ricorrente, operando con clientela privata, incassa (in parte) in contanti, per cui deciderà di trattenere quanto necessario per le proprie esigenze personali e famigliari, senza effettuare il passaggio nel conto corrente. Se poi, a posteriori, le esigenze saranno risultate sovrastimate o posticipate, egli si ritroverà con un’eccedenza di contante che andrà a sommarsi agli incassi nel frattempo effettuati. Per dare prova di ciò occorre che venisse imposto al contribuente la tenuta del giornale di cassa non solo per le operazioni commerciali ma anche per quelle personali e famigliari: il che non risulta ancora essere stato attuato dalla normativa tributaria!”. Ma i giudici aggiungono anche: “Per cui quello che l’Ufficio chiede al contribuente è una prova impossibile (nella pratica) da fornire, soprattutto se si considera che, essendo il contribuente soggetto a contabilità semplificata, non è tenuto ad effettuare le registrazioni dei conti bancari e della cassa”. Una motivazione perfetta, peraltro blindata con l’ulteriore conclusione che al contribuente non sono contestate violazioni contabili e nemmeno attribuito un tenore di vita tale da essere sintomo di evasione ai fini del redditometro. Non resta che auspicare un’adesione massiccia della giurisprudenza a tale illuminata sentenza.