16 Novembre 2015

La proprietà degli impianti sportivi e il contratto simulato parte I

di Guido Martinelli
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Numerosi accertamenti avvenuti nel corso degli ultimi mesi a carico di società o associazioni sportive preposte alla gestione di impianti sportivi di proprietà privata hanno rilevato l’esistenza di contratti simulati. La simulazione è una particolare espressione dell’autonomia contrattuale ed è regolata dagli artt. 1414 ss.

Esaminiamo la fattispecie concreta, entrata nell’ottica dell’Agenzia delle entrate, piuttosto diffusa nella gestione dell’impiantistica sportiva di proprietà privata.

Uno o più imprenditori decidono di investire nello sport e procedono alla realizzazione di un impianto sportivo. Una volta realizzato e attrezzato l’impianto decidono di non gestirlo direttamente ma di utilizzare a tal fine una costituenda società (della quale detengono il controllo della maggioranza del capitale) o associazione sportiva (in questo secondo caso assumendo gli incarichi a titolo personale nell’organo di gestione dell’ente) dilettantistica alla quale trasferire la gestione. Nella maggior parte dei casi attraverso un contratto di affitto d’azienda, in altri casi con una semplice locazione.

Normalmente il canone costituisce l’unico ricavo ed è pari ai costi che la società profit deve sostenere per la sua esistenza.

In alcuni casi abbiamo anche visto trasferire il bene con dei contratti di comodato.

Essendo tale accordo, in quest’ultimo caso, essenzialmente gratuito, l’ipotesi che una impresa profit possa cedere senza alcun corrispettivo l’utilizzo dell’unico o comunque di uno dei principali asset societari appare difficilmente difendibile e, pertanto, nel caso dell’utilizzo di tale ultima fattispecie, il rischio di interposizione appare ancora più marcato.

La motivazione principale di tale agire è riscontrabile, in gran parte, nella necessità di blindare la “titolarità” dell’investimento separandolo dalla gestione.

È noto, infatti, che la caratteristica delle associazioni e società sportive dilettantistiche è quella di non consentire all’investitore di poter ripetere quanto versato nell’iniziativa imprenditoriale, sia durante la vita dell’ente sia al termine con l’obbligo di devolvere eventuali beni residui a finalità altruistiche nel campo dello sport.

L’assenza di scopo di lucro, anche indiretto, la non ripetibilità delle quote versate, la cessione delle quote, se ed in quanto possibili (ricordiamo che le sportive che intendano utilizzare anche le agevolazioni fiscali di cui all’art. 148 Tuir e art. 4 dpr. 633/72 – che sono tra le più importanti – debbono prevedere il divieto di cessione di quote per atto tra vivi) al massimo al valore nominale, produce che chiunque investa in una struttura sportiva cerchi di “tutelare” questo investimento attraverso la creazione di una “cassaforte” in cui saranno contenute le immobilizzazioni, trasferendo solo la gestione pura e semplice ad una sportiva con contratto di affitto d’azienda, pena la consapevolezza di dover rinunciare a qualsiasi forma di remunerazione e/o di conservazione di quanto anticipato.

La mancata diretta gestione dell’attività da parte del soggetto che ha effettuato l’investimento è ovviamente imputabile ai vantaggi di carattere “fiscale” legati alla gestione attraverso un contenitore “sportivo – dilettantistico”.

Tale comportamento produce un paio di conseguenze dirette ed una potenziale, indiretta, di non trascurabile importanza.

Le due conseguenze dirette sono legate, la prima, alla circostanza che, in molti casi, la “immobiliare” non svolge altra attività e, la seconda, all’assoggettamento o meno ad Iva del canone che la sportiva dovrà versare per la gestione dell’impianto.

In tutti quei casi in cui l’impresa “profit” si limita alla proprietà dell’immobile, il rischio è quello della applicazione della disciplina delle c.d. “società di comodo”.

Rischio incentivato dalla recente riforma dell’istituto per la quale potrebbero essere sufficienti alcune gestioni in perdita per rientrare in tale, più onerosa, disciplina.

Di maggiore interesse, però, appare essere la seconda problematica.

Il canone che la sportiva dovrà versare, al fine anche di evitare i potenziali rischi della conseguenza indiretta di cui diremo tra poco, non potrà essere di importo tale da costituire mera copertura dei costi di investimento della società a monte ma dovrà essere necessariamente un canone di mercato, ossia dovrà avere una entità tale da giustificare non solo il valore ma anche la reddittività dell’investimento messo a disposizione della sportiva.

Ma se parlassimo di valore importante in molti casi dovremmo fare riferimento anche a una percentuale di Iva “importante” che andrà ad aggiungersi e per la quale la sportiva, non avendo Iva sulle vendite, non potrà applicare rivalsa, operando a tal fine come consumatore finale.