5 Settembre 2023

Cenni sulle modifiche Iva nel terzo settore

di Roberto Curcu
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È da diversi anni che il cosiddetto “terzo settore” è in fermento, per via delle modifiche operate dal D.Lgs. 117/2017, ossia il cosiddetto “codice del terzo settore”, che impone il cambio di statuti, di denominazioni, e svariati altri oneri burocratici.

La disciplina Iva del terzo settore, però, non ha ancora delle linee di chiarezza, e vi sono molti dubbi in capo agli operatori, allarmati da una norma che dovrà cambiare a seguito di una procedura di infrazione in corso da parte della Commissione europea, per una non compatibilità della normativa interna con quella comunitaria.

Il D.L. 146/2021 avrebbe già dovuto modificare la disciplina Iva relativa alle operazioni del terzo settore contenute nel Decreto Iva, per renderle compatibili con la disciplina comunitaria, ma prima del 1° luglio 2024 sicuramente non entrerà in vigore, viste le varie proroghe disposte, da ultima quella contenuta nel D.L. 51/2023, che ha spostato il termine di decorrenza delle nuove disposizioni prima fissato al 1° gennaio 2024.

Ciò premesso, ad oggi si sta applicando una normativa che non è compatibile con il diritto comunitario e per la quale c’è pendente una procedura di infrazione.

Ciò premesso, il problema del non corretto recepimento è che l’articolo 4 del Decreto Iva, attualmente in vigore, prevede che determinate prestazioni di servizi effettuate da enti associativi, siano escluse dal campo di applicazione dell’Iva, anche nel caso in cui siano chiesti dei corrispettivi specifici per la loro esecuzione.

Se infatti è pacifico che una quota associativa che molte volte non dà diritto ad alcunché resta esclusa da Iva, il Decreto Iva prevede che a particolari condizioni, anche cessioni di beni o prestazioni di servizi per le quali un socio paga un corrispettivo specifico, possano essere escluse da Iva.

Da qui ne consegue che se l’ente non commerciale effettua solo operazioni escluse da Iva, lo stesso non aprirà nemmeno la partita Iva.

La incompatibilità della norma nazionale con quella comunitaria è che le cessioni di beni e le prestazioni di servizi, rese dall’ente non commerciale dietro corrispettivi specifici nei confronti del propri soci, non possono considerarsi escluse da Iva, ma a certe condizioni gli Stati membri possono considerarle esenti; per alcune di queste prestazioni di servizi, peraltro, gli Stati membri possono prevedere l’applicazione del regime di esenzione solo se non provocano distorsioni della concorrenza a danno delle imprese commerciali soggette ad Iva.

Facciamo un esempio: oggi il bar di una associazione di promozione sociale che cede il bicchiere di vino ai soci dietro corrispettivo specifico, non fa nulla, in quanto effettua una operazione esclusa da Iva.

Secondo la disciplina comunitaria, invece, tale operazione potrebbe essere esente solo se non crea distorsioni della concorrenza con i bar che il bicchiere di vino devono assoggettarlo ad Iva.

Ipotizzando che tale distorsione della concorrenza non vi sia (ad esempio l’associazione si limita alla mescita delle bevande la domenica dopo la messa, in un Paese dove non esistono bar), cosa può cambiare tra una esclusione Iva ed un’esenzione, visto che comunque lo Stato non incassa nessuna imposta?

Considerato che le operazioni esenti sono quasi sempre esonerate dagli obblighi di certificazione, registrazione e presentazione della dichiarazione Iva, la differenza è solo la richiesta apertura di un numero di partita Iva.

La norma che dovrebbe quindi entrare in vigore a luglio 2024, abrogherà le esclusioni da Iva previste dall’articolo 4, ed introdurrà delle esenzioni nell’articolo 10, obbligando in ogni caso molte associazioni alla richiesta di un numero di partita Iva.

Una cosa che getterà certamente tutto il settore in confusione, è che per la direttiva queste esenzioni possono essere concesse solo se non creano distorsioni della concorrenza.

Ad avviso di chi scrive, dovrebbe essere il legislatore italiano, nel recepimento della norma comunitaria, a definire quali sono i casi che non creano distorsioni di concorrenza (ad esempio basso numero di soci, operazioni fino ad una certa cifra, distanza minima dal più vicino esercizio commerciale, ecc…).

Invece, il legislatore nazionale ricopia la norma che deve recepire, e quindi non si capisce chi deciderà se il regime di esenzione – negli specifici casi – crea o meno distorsione della concorrenza.

Il banco mescita dell’associazione di promozione sociale di un paese senza bar, potrà tranquillamente applicare il regime di esenzione? E quello dell’associazione a 100 metri da un bar? Chi deciderà se vi è o meno distorsione della concorrenza?

Qualora invece la distorsione della concorrenza vi sia, e quindi i corrispettivi non potranno godere del regime di esenzione, verrà previsto che tali enti potranno applicare il regime forfettario.

Insomma, per i ricavi minimi ottenuti da tali enti, non dovrà comunque essere addebitata Iva e gli oneri amministrativi dovrebbero comunque rimanere limitati.