18 Ottobre 2016

La motivazione dell’atto impositivo

di Massimiliano Tasini
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Credo che almeno una vicenda su tre che passa sotto gli occhi dei Giudici Tributari sia connotata da una eccezione in tema di motivazione dell’atto impositivo.

Devo dire che, quando durante le udienze tributarie, parliamo di questo argomento, la sensazione che si trae è, in più di qualche occasione, quella di sufficienza: “ancora di questo ci parlate …”, più o meno espressamente.

È un approccio che si presta a più di qualche critica, e che di certo non onora il lavoro dei tantissimi Giudici Tributari che, con tanta passione, svolgono il proprio lavoro.

La Corte di Cassazione in questi anni ha detto tante, tante cose, in tema di motivazione dell’atto; e non sono cose scontate, tutt’altro.

La motivazione non è un atto meramente formale, di stile. Motivare significa indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche dell’atto impugnato.

La motivazione non può essere generica; non può estrinsecarsi in una mera “provocatio ad opponendum”. Il contribuente, fin dal ricevimento dell’atto, deve essere messo in condizione di esercitare con pienezza e senza limitazione alcuna il proprio diritto di difesa; e non importa se poi il ricorso sia adeguatamente motivato, poichè la prognosi in ordine alla sufficienza della motivazione non può e non deve essere influenzata dalla capacità/abilità/fortuna del contribuente di costruire un ricorso completo ed efficace.

La motivazione non può essere contraddittoria. In particolare, l’Ufficio non può evocare due o più presupposti tra loro confliggenti, perchè se così facesse costruirebbe una motivazione (o più) di riserva. Quindi, non si può sostenere che una fattispecie è, al tempo, evasiva ed elusiva: perchè se eludo non violo alcuna norma, mentre se evado ho contravvenuto ad un ordine della legge.

La motivazione è statica. Non è nemmeno ipotizzabile che l’Ufficio possa integrarla nel corso del giudizio. Naturalmente, può ben essere che l’Ufficio intenda controdedurre rispetto alle considerazioni espresse dal contribuente nel proprio ricorso introduttivo, ma questo e solo questo. Quindi, non è legittimo l’operato dell’Ufficio che, dopo avere fondato l’atto impositivo – che ipotizza una sottofatturazione di un immobile in fase vendita – sulla scorta di una dichiarazione testimoniale, faccia poi ricorso agli OMI per sostenere la propria tesi.

La motivazione deve essere coerente alle prove dedotte o comunque deducibili in giudizio. Non si può sostenere che l’atto si fonda su indagini finanziarie in realtà non poste in essere, o poste in essere su soggetti diversi dal contribuente accertato senza specificare il soggetto verificato.

E, più in generale, la motivazione deve essere correlata alle prove dedotte o deducibili. Pertanto, non si può fondare l’atto impositivo su una prova estranea alle ragioni giuridiche sottese all’atto medesimo.

La motivazione può ben fare riferimento ad un altro atto, ad essa esterno. Ma, se tale secondo atto non è nella disponibilità del contribuente, esso va allegato, oppure ne va riprodotto il contenuto essenziale. Quest’ultima previsione va letta con particolare rigore, ad evitare che il contribuente non sia messo nella effettiva disponibilità delle informazioni di cui necessita per esercitare, ancora una volta, un diritto alla difesa pieno ed effettivo. Pertanto, non si possono riprodurre stralci di interrogatori operati dalla Polizia Giudiziaria nel corso di indagini penali; e, soprattutto, non si possono occultare quegli interrogatori che sono a favore del contribuente accertato.

Naturalmente, il contribuente non deve abusare dell’eccezione: pertanto, motivi stereotipati, a maggior ragione se racchiusi in paragrafi lunghi, pesanti, ridondanti, sono da rifuggire come la peste, sul piano della forma e della sostanza. È sempre un ottimo esercizio quello di mettersi nei panni di chi sta dall’altra parte, Giudice o Funzionario dell’Agenzia che sia, e provare a pensare a come reagirebbe in casi simili, specie se il ricorso è scritto a carattere Times New Roman 8.

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