24 Novembre 2016

Il prelievo in acconto sugli utili delle società di persone

di Luca Caramaschi
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Il prelevamento di acconti sugli utili in corso di formazione da parte dei soci di società personali è un fenomeno assai frequente in quanto si ritiene, a torto o a ragione, che il carattere personale del rapporto tra socio e società nonché le minori formalità rispetto all’ambito delle società di capitali rendano possibile, o quantomeno non illecita, questa operazione. Vediamo, pertanto, di approfondire la questione alla luce di quanto previsto nell’articolo 2262 del codice civile, norma inserita nel capo II del Titolo V che, in quanto dedicata alle società semplici, si applica anche alle società in nome collettivo ed in accomandita semplice in forza dei rimandi contenuti, rispettivamente, negli articoli 2293 e 2315 del codice civile. Ovviamente l’applicazione delle norme generali sulle società semplici alle società in nome collettivo o in accomandita avviene solo nel caso in cui per queste ultime società non siano previste disposizioni specifiche nei capi III e IV, incompatibili con le regole generali disposte per le società semplici.

Fatta questa doverosa premessa, occorre innanzitutto evidenziare che il citato articolo 2262 del codice civile stabilisce che il socio ha diritto a percepire la propria quota di utili solo dopo l’approvazione del rendiconto, a meno che nello statuto sociale venga stabilito un patto contrario. Dall’esegesi di tale norma emerge che la possibilità di erogare acconti sugli utili dipenda dall’esistenza o meno di una specifica clausola inserita nello statuto e in assenza della quale sia necessario attendere l’approvazione del rendiconto, ovvero la chiusura dell’esercizio.

Va inoltre ricordato che, in base all’articolo 2627 del codice civile, gli amministratori che ripartiscono acconti sugli utili che non possono essere distribuiti, in quanto il rendiconto non è stato ancora approvato, eseguono comportamenti che rischiano di essere penalmente rilevanti (la norma citata prevede l’arresto fino ad un anno). Da tale delicata considerazione emerge che un rimedio assolutamente consigliabile per eliminare l’illecito è quello di prevedere negli statuti delle società semplici l’esplicita clausola che permette l’erogazione degli acconti sugli utili.

In generale, quindi, per tutte le società sia di persone che di capitali, non è possibile eseguire prelevamenti in acconto di utili futuri, poiché non è certo che quegli utili siano effettivamente realizzati.  Vi è, tuttavia, una deroga particolare per le società di capitali il cui bilancio è assoggettato per legge a revisione legale dei conti, per le quali è possibile erogare, a certe condizioni, acconti sui dividendi. In via eccezionale, come già osservato, è comunque possibile erogare acconti sugli utili per le società semplici, se lo statuto ha previsto una esplicita deroga alla norma di cui all’articolo 2262 del codice civile, deroga con la quale i soci autorizzano il prelevamento in via anticipata sull’utile in corso di formazione.

Dopo aver analizzato la disciplina applicabile alle società semplici andiamo ora a vedere quale scenario si presenta, invece, per le società in nome collettivo ed in accomandita semplice, tipologie societarie che maggiormente ricorrono nella prassi. Il primo comma dell’articolo 2303 del codice civile (inserito nel Capo III e cioè nelle norme destinate alle S.n.c. e, per rimando, anche alle S.a.s.) afferma che non può farsi luogo a ripartizione di somme se non per utili realmente conseguiti. E, ragionevolmente, non può ritenersi certamente conseguito un utile che non derivi da un rendiconto approvato. Va inoltre sottolineato che la norma ora richiamata, a differenza dell’articolo 2262 del codice civile, non prevede il possibile patto contrario.

Dalla ricostruzione normativa effettuata, quindi, emerge che l’erogazione di un acconto sull’utile in via di formazione costituirebbe un’operazione sempre vietata nelle società in nome collettivo e in accomandita semplice. Tali conclusioni, che derivano da una interpretazione letterale delle disposizioni legislative sono state tuttavia disattese da una significativa sentenza della Corte di Cassazione, la n. 10786 del 9 luglio 2003, nella quale si perviene alla conclusione che anche nelle società in nome collettivo (e conseguentemente anche per le società in accomandita semplice) risulta  applicabile la previsione contenuta nell’articolo 2262 del codice civile, ovvero la possibilità di erogare acconti sugli utili qualora venga inserita nello statuto sociale – con l’unanime volontà dei soci – una specifica clausola in tal senso. Secondo la Suprema Corte, quindi, la previsione contenuta nell’articolo 2303 del codice civile, riferibile a S.n.c. e S.a.s., non costituisce norma speciale dal contenuto restrittivo (e alternativo) rispetto alle società semplici, bensì complementare.

A questo punto, per poter giustificare comportamenti che costituiscono la prassi di quasi tutte le società personali (e cioè la corresponsione di acconti sugli utili) appare fondamentale verificare, e nel caso di assenza suggerirne l’inserimento, in tutti gli statuti delle società personali di una clausola che permetta l’erogazione degli acconti sugli utili. Ovviamente, occorre sempre considerare la necessità (spesso disattesa) che le somme erogate in acconto trovino poi copertura nell’utile effettivamente prodotto a fine esercizio, e ciò al fine di evitare che per il socio assegnatario di somme che non trovano copertura nel patrimonio netto, si possa realizzare l’ipotesi di distrazione illecita di attività sociali. A questo proposito va ricordato che nel caso in cui a fine esercizio emerga che i prelevamenti eseguiti in corso d’anno siano superiori rispetto all’utile effettivamente prodotto, si determina un deficit patrimoniale che potrebbe avere delicate ripercussioni, specie nel caso di derive concorsuali nelle quali potrebbe essere coinvolta la società.

Tale situazione, inoltre, determina anche un problema sul versante fiscale qualora vi siano interessi passivi portati in deduzione, poiché sarebbe chiaro, in caso di prelievi eccedenti il patrimonio netto, che almeno una parte della provvista finanziaria rilasciata dall’istituto di credito è stata utilizzata per eseguire dazioni ai soci superiori a ciò che essi potevano prelevare, il che comporterebbe una parziale non inerenza dei costi per interessi passivi. Per rimediare a tale situazione sarebbe necessario, almeno, rendere indeducibili parzialmente gli interessi passivi determinando la quota non inerente con un criterio proporzionale, utilizzando come parametri le riserve prelevabili rispetto alle somme effettivamente prelevate. Resta, infine, in ogni caso, la soluzione che prevede la restituzione da parte del socio delle somme prelevate in eccesso.

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