28 Febbraio 2015

Il reddito da allevamento di animali

di Luigi Scappini
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Il Legislatore civilistico, a seguito della riforma attuata ai sensi del D.L. n. 57/2001, riscrivendo l’articolo 2135 del codice civile, ha, sulla falsariga di quanto già previsto, individuato alcune attività considerate come agricole in quanto tali, pur con alcune peculiarità e innovazioni rispetto al passato.

Ci stiamo riferendo, in primis, all’introduzione della previsione della cura e dello sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria dello stesso, circostanza che ha comportato l’introduzione di una figura imprenditoriale non più statica in quanto si dedita a un’attività ad esempio di coltivazione della terra ma con il fine precipuo della mera raccolta dei suoi frutti, ma dinamica ove lo scopo è quello di svolgere un’attività protesa a un miglioramento in termini quantitativi o qualitativi del prodotto.

In second’ordine, ma non meno importante vi è il passaggio da una concezione di agricoltura strettamente e strenuamente legata al fondo in quanto tale a una ove il fondo diventa elemento potenziale.

Attenzione, con questo non stiamo dicendo che con la riforma del 2001 si è assistito a un’integrale sganciamento del concetto di agricoltura dal fondo bensì che l’utilizzo della terra è diventato solamente eventuale. Tuttavia, questa eventualità sta a significare che l’attività, per potersi considerare quale agricola, deve pur sempre essere esercitabile sul fondo, eliminando in tal modo il rischio che si facessero rientrare in tale concetto, ad esempio, la produzione di muffe o microrganismi in laboratorio.

Da tale contesto non si discosta l’allevamento di animali, attività per cui, calando l’analisi sul piano fiscale, il Legislatore esplicita tale potenzialità del terreno individuando, ai fini della ricomprensione dell’attività tra quelle che fruiscono della tassazione catastale ai sensi dell’art. Tuir, un parametro quantitativo.

Ci stiamo riferendo alla circostanza per cui si considera agricola l’attività di allevamento di animali a condizione che lo stessa sia “esercitata” con mangimi ottenibili per almeno un quarto dal terreno detenuto o condotto.

Di tutta evidenza è che l’elemento terreno deve sussistere a prescindere dal suo reale utilizzo, sia esso quale fattore produttivo nell’ipotesi in cui dalla sua coltivazione si ottengano realmente i mangimi per gli animali allevati o bene strumentale in quanto utilizzato per lo stazionamento degli stessi.

In altri termini, non vi è attività agricola in assenza di terreno.

Altro discorso è il possedere o meno il terreno sufficiente per poter rientrare nei parametri come definiti, ai sensi dell’articolo 32, comma 3 Tuir con decreto ministeriale di cui l’ultimo è quello emanato in data 18.12.2014, già commentato in un precedente articolo.

A tal fine la Tabella 3 del decreto richiamato individua il numero di capi allevabili in ragione del reddito agrario posseduto. Questa precisazione fa sì che il terreno, ai fini della determinazione, deve essere posseduto o condotto in forza di un contratto di affitto, a nulla rilevando, al contrario, la concessione in comodato dello stesso.

Ad esempio, il decreto stabilisce che dichiarando un reddito agrario pari a 51,65 euro il limite di bovini allevabili per rientrare nel parametro di cui all’art. 32 Tuir è pari a 7,04.

Ciò sta a significare che, ad esempio, il signor Rossi possiede terreni per un reddito agrario dichiarato pari a 2.350 euro, il numero di capi allevabili sarà pari a:

(2.350 * 7,04)/51,65 = 320,30

Alla luce di fin qui detto, quindi, si potranno originare dall’attività di allevamento di animali le seguenti categorie reddituali:

  • reddito agrario ex art. 32 Tuir nel caso di rispetto del parametro quantitativo di 1/4;
  • reddito di impresa ex art. 56, comma 5 Tuir in ipotesi di superamento dei capi allevati rispetto ai limiti di cui al D.M. 18.12.2014 e
  • reddito di impresa ex art. 55 Tuir nel caso di assenza di connessione con il terreno.

Nel caso di superamento dei limiti e determinazione del reddito in via forfettaria secondo l’art. 56, comma 5, resta inteso che fino a “capienza” il reddito da dichiarare è sempre quello su base catastale.

In altri termini, e riprendendo l’esempio di cui sopra, il signor Rossi fino a 320 capi allevati dichiarerà il reddito agrario, e solamente per l’eventuale eccedenza seguirà la determinazione del reddito come prevista dall’articolo 56, comma 5 è forfettaria. Tuttavia, alla luce della collocazione della previsione all’interno del Tuir, la classificazione del reddito prodotto rientra nel reddito di impresa.

Tale affermazione non deve tuttavia fuorviare per quanto attiene il suo ambito di applicazione che non si ritiene estendibile alle società agricole ai sensi del D.Lgs. n. 99/2004 costituite sotto forma di società di persone o di S.r.l..

Tale esclusione si evince dal dato letterale dell’art. 1, comma 1093 della Legge n. 296/2006 ai sensi del quale “Le società …possono optare per l’imposizione dei redditi ai sensi dell’articolo 32 …” senza richiamare il successivo art. 56, comma 5.

In tal caso, il mancato rispetto del parametro territoriale comporta l’assoggettamento di tutto il reddito alle regole ordinarie del reddito di impresa.