20 Dicembre 2016

Il diritto alla percezione degli utili nelle società di persone

di Luca Caramaschi
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Dopo aver esaminato in precedenti contributi le tematiche dei creditori particolari del socio, dei profili di responsabilità nei trasferimenti di quote e nella distribuzione di acconti sugli utili, si analizza ora un altro aspetto problematico che riguarda la disciplina delle società personali e cioè, la procedura con la quale viene distribuita al socio la quota di utili di sua spettanza.

Più precisamente, la questione riguarda la verifica del fatto se il socio detenga o meno un diritto soggettivo a percepire la propria quota di utili, e, ove si pervenisse a risposta positiva, se tale diritto sia azionabile anche in contrasto con la diversa, e maggioritaria, volontà degli altri soci.

Il problema non è banale. Basti pensare a possibili e frequenti contenziosi interni alla compagine sociale: ebbene, ove si dimostrasse l’esistenza del diritto soggettivo del socio, egli, anche se detentore di quota di minoranza, potrebbe intentare una causa contro gli altri soci/amministratori che, invece, non intendono erogare alcuna ripartizione di utili o riserve.

Se si analizza lo scenario normativo previsto per le società di capitali si perviene agevolmente alla consolidata conclusione che il diritto del socio alla percezione degli utili è mediato dalla decisione assunta dalla collegialità dei soci (articolo 2433 del codice civile), quindi, non un diritto soggettivo automatico che assume efficacia a partire dal momento in cui l’utile è realizzato e “ufficializzato” dall’approvazione del bilancio, bensì un diritto che nasce a condizione che si formi una volontà maggioritaria dei soci favorevole alla distribuzione dell’utile.

Per le società di persone, invece, il descritto scenario normativo non trova applicazione. L’articolo 2262 del codice civile, infatti, afferma il diritto soggettivo del socio a percepire l’utile, condizionando la genesi di tale diritto solo alla circostanza che il rendiconto sia stato approvato. L’indirizzo della Corte di Cassazione al riguardo sembra univoco (si vedano, su tutte, le sentenze n. 1240 del 17 febbraio 1996 e n. 4454 del 20 aprile 1995). Tali pronunce affermano che una volta approvato il rendiconto, il socio matura un diritto soggettivo ed automatico a percepire la propria quota dell’utile dell’esercizio, diritto non comprimibile dalla eventuale diversa volontà degli altri soci. In entrambe le sentenze sopra citate si segnala, inoltre, che laddove si voglia evitare la distribuzione di utili, in presenza di possibili eventi negativi che potrebbero in futuro richiedere alla società di far fronte a costi, occorrerebbe imputare accantonamenti nel conto economico e solo in questo modo il rendiconto approvato permetterebbe di trattenere le somme in capo alla società. Ma se, al contrario, si volesse destinare a riserva l’utile conseguito in tutto o in parte in previsione di necessità patrimoniali future, tale scelta potrà essere assunta solo all’unanimità non potendo travalicare la volontà diversa del singolo socio.

In presenza di questo scenario normativo, la procedura contabile che sembra più corretta non è ipotizzare che l’utile d’esercizio entri a far parte del patrimonio netto semplicemente perché conseguito, come accade nella maggior parte dei casi nella prassi operativa, bensì che venga allocato tra le passività cioè debiti verso i soci, proprio in funzione del diritto soggettivo ed automatico sopra evidenziato. Questo passaggio, evidentemente, non è privo di implicazioni di carattere fiscale, basti pensare all’applicazione dell’ACE (aiuto alla crescita economica) nelle società di persone, agevolazione che potrebbe essere contestata proprio evidenziando che il diritto soggettivo del socio  comporta che l’utile conseguito rappresenti una passività e non una posta di patrimonio netto che, come è noto, rappresenta, nel contesto normativo attuale, la base imponibile per il calcolo della stessa agevolazione.

Per disinnescare le possibili contestazioni (interne alla compagine sociale o esterne da parte dell’Agenzia delle Entrate) un suggerimento semplice ed efficace consiste nell’inserire nello statuto sociale una clausola che preveda di attribuire alla decisione maggioritaria dei soci, con forme che dovranno essere esplicate, le scelte relative alla destinazione dell’utile. In assenza di tale clausola statutaria è certamente opportuno rendere ufficiale, con idonei mezzi probatori, la volontà unanime dei soci di destinare l’utile a riserva: se, infatti, la percezione dell’utile è un diritto soggettivo del socio egli potrà certamente rinunziare ad azionarlo, facendo constare la propria decisione da elementi documentali inoppugnabili.

Sul tema del diritto soggettivo alla percezione degli utili nelle società di persone è quindi possibile sintetizzare quanto segue:

  • mentre nelle società di capitali i soci non hanno alcun diritto soggettivo ad incassare la propria quota di utili se non si forma una volontà maggioritaria dei soci a distribuire i dividendi, nelle società di persone il socio detiene questo diritto soggettivo, non alterabile dalla diversa volontà dei soci; pertanto, se in una società di persone la maggioranza dei soci decide di destinare l’utile a riserva mentre un socio di minoranza desidera riceve la quota di utili di propria pertinenza, tale somma dovrà essergli erogata;
  • se è vero che esiste nelle società di persone un diritto soggettivo del socio ad incassare la propria quota di utile, è altrettanto vero che lo stesso socio può rinunziare a tale diritto o comunque regolamentarlo; in questo senso si ritiene assolutamente lecito inserire nello statuto sociale una clausola che elimina tale diritto soggettivo, prevedendo che la destinazione dell’utile di esercizio dipenda dalla decisione maggioritaria (o unanime) assunta di comune accordo con gli altri soci.

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