20 Febbraio 2019

Costi black list: occorre la prova della concreta esecuzione delle operazioni

di Marco Bargagli
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Come noto, la L. 208/2015 (Stabilità 2016) ha abrogato le disposizioni che rendevano indeducibili, dal reddito di impresa, i costi sostenuti nell’ambito delle transazioni economiche e commerciali intrattenute con fornitori residenti in Stati o territori aventi regime fiscale privilegiato.

Per effetto della radicale riforma, i costi paradisiaci sono attualmente deducibili in base alle norme generali previste per i componenti del reddito d’impresa (ex articolo 109 Tuir) a norma del quale i ricavi, le spese e gli altri componenti positivi e negativi concorrono a formare il reddito nell’esercizio di competenza e sulla base dei noti principi di inerenza, certezza ed obiettiva determinabilità.

Importanti chiarimenti in ordine alle novità fiscali intervenute in subiecta materia, sono state fornite da parte dell’Agenzia delle entrate con la circolare 39/E/2016, la quale ha tracciato la genesi normativa e, simmetricamente, illustrato le disposizioni in vigore nei vari periodi d’imposta.

Nello specifico, sino a tutto il periodo 2014, la disciplina sostanziale di riferimento riferita ai costi paradisiaci era contenuta nell’articolo 110, commi 10, 11 e 12, Tuir, il quale prevedeva che non erano ammessi in deduzione dal reddito d’impresa le spese e le altre componenti negative di reddito derivanti da operazioni intercorse con imprese residenti ovvero localizzate in Stati o territori a fiscalità privilegiata.

Tuttavia, era prevista la possibilità per il contribuente di disapplicare il suddetto regime di indeducibilità a condizione che i committenti residenti in Italia avessero fornito la prova che i fornitori esteri svolgevano prevalentemente un’attività commerciale effettiva, ovvero che le operazioni poste in essere rispondevano ad un effettivo interesse economico, avendo comunque avuto concreta esecuzione.

Successivamente, per effetto delle ulteriori novità introdotte dal D.Lgs. 147/2015 (c.d. decreto internazionalizzazione e crescita delle imprese), venivano modificate le esimenti che consentivano la deduzione, dal reddito d’impresa, degli oneri sostenuti dal contribuente.

Nello specifico, il legislatore ha abrogato la prima esimente prevista dall’articolo 110, comma 11, Tuir che, come detto, consentiva la deducibilità delle spese sostenute qualora i fornitori esteri avessero dato prova di svolgere un’attività commerciale effettiva riconoscendo, in ogni caso, la deducibilità dei costi black list entro il limite del valore normale dei beni e dei servizi acquistati. Inoltre, rimaneva comunque possibile dimostrare l’effettivo economico dell’operazione.

Recentemente la Corte di cassazione, con l’ordinanza 2613/2019 del 30.01.2019, si è espressa circa l’operatività delle esimenti confermando, in particolare, la necessità di fornire prova dell’inerenza delle spese sostenute, nonché rispettare il requisito della concreta esecuzione dell’operazione economica posta in essere.

La vicenda de qua traeva origine da una verifica fiscale effettuata dalla Guardia di Finanza nei confronti di una società di capitali esercente l’attività di trasporti marittimi, la quale aveva noleggiato tre navi da trasporto di proprietà di società aventi sede in Paesi a fiscalità privilegiata (Liberia e Malta).

Prima di emettere l’avviso di accertamento, l’Agenzia delle Entrate inviava alla società verificata un apposito questionario con il precipuo scopo di richiedere la pertinente documentazione di dettaglio comprovante che le società estere, aventi sede in Stati con regime fiscale privilegiato, svolgevano un’attività commerciale effettiva, ovvero che le transazioni effettuate rispondevano ad un effettivo interesse economico.

Inoltre, veniva richiesto di fornire la prova che le operazioni in rassegna avessero avuto concreta esecuzione.

Tuttavia, a fronte della richiesta formulata da parte dell’Ufficio finanziario, la società non inviava alcuna risposta, ragion per cui l’Agenzia delle entrate notificava al contribuente un avviso di accertamento quantificando le maggiori imposte dovute.

A questo punto, la società impugnava il predetto atto impositivo davanti alla Commissione tributaria provinciale di Palermo che rigettava il ricorso, mentre la Commissione tributaria regionale della Sicilia accoglieva le memorie difensive presentate dalla società, affermando che dall’esame del testo normativo emergeva che al principio della indeducibilità può derogarsi qualora l’impresa italiana fornisca prova di svolgere in via prevalente un’attività commerciale effettiva, ovvero che l’operazione sia stata posta in essere per un effettivo interesse economico.

A parere del giudice del gravame tale prova era in particolare riferibile alla documentazione riguardante l’impresa residente in Italia prodotta in giudizio, di seguito evidenziata:

  • iscrizione nel registro delle imprese;
  • esibizione dei bilanci e delle relative dichiarazioni dei redditi regolarmente presentate,
  • autorizzazioni concesse, numero dipendenti.

Di contro, gli ermellini hanno accolto il ricorso presentato da parte dell’Agenzia delle entrate contro la decisione di appello, tenuto conto che il giudizio espresso in secondo grado era fondato su una letturapalesemente errata” della normativa sostanziale di riferimento.

Infatti, come in precedenza illustrato, è prevista la possibilità di dedurre i costi sostenuti solo qualora l’impresa residente italiana fornisca la prova che “le imprese estere” (e non l’impresa residente), con cui sono state intrattenute le operazioni economico-commerciali svolgono prevalentemente un’attività commerciale effettiva.

Inoltre, è possibile dimostrare che vi sia un effettivo interesse economico dell’impresa italiana non all’operazione commerciale in sé, ma all’effettuazione della medesima transazione proprio con quella determinata società avente residenza nel Paese “black list”.

Infine, a fattore comune, è sempre necessario che sia dimostrata la concreta avvenuta esecuzione delle operazioni commerciali poste in essere.

In definitiva, come affermato dai giudici di piazza Cavour, sussiste anche il dedotto vizio di motivazione poiché, essendosi il giudice di appello “arrestato alla considerazione che la società italiana … omissis .. svolge una effettiva attività commerciale (circostanza pacifica quanto irrilevante) ha omesso di verificare se la predetta società abbia fornito la prova richiesta dall’articolo 110 comma 11 D.P.R. 22 dicembre 1986 n.917 al fine di poter dedurre i costi derivanti da operazioni commerciali intraprese con società residenti in paesi a fiscalità privilegiata”.

La fiscalità internazionale nella dichiarazione dei redditi