25 Novembre 2013

Diritto di accesso alle dichiarazioni rilasciate dai lavoratori in sede ispettiva

di Ernesto RussoGuido Martinelli
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Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali ha, con propria circolare n. 43 dell’8/11/2013, fornito istruzioni operative ai propri Uffici riportando il disposto di una recente sentenza del Giudice Amministrativo in materia di richiesta di accesso alle dichiarazioni rese dai lavoratori nel corso delle verifiche ispettive.

Il Consiglio di Stato, sez. VI, con sentenza n.4035 del 31/07/2013 (di conferma della sentenza del Tar Lazio, Sez. II, n.168/2013) ha incidentalmente affrontato la questione della legittimità del diniego inerente un’istanza di accesso agli atti avanzata, nella fattispecie, da un coobbligato in solido del datore di lavoro (il ricorso è stato rigettato per una questione pregiudiziale).

Nella sentenza il Collegio dà conto degli orientamenti giurisprudenziali non univoci sul punto alla ricerca del non facile bilanciamento tra le esigenze di tutela della riservatezza dei lavoratori ed il diritto di difesa costituzionalmente garantito (art. 24 Cost.).

Una pronuncia in particolare (cfr. Cons. St., sez. VI, n. 3798/08) aveva in passato ritenuto ammissibile l’accesso al contenuto delle dichiarazioni rese dai lavoratori agli ispettori pur se “con modalità che escludano l’identificazione degli autori delle medesime”. Secondo questo orientamento, dunque, l’Amministrazione avrebbe dovuto consentire l’accesso alle dichiarazioni dei lavoratori pur omettendo i nomi degli autori delle stesse così da contemperare gli opposti interessi in gioco.

V’è da rilevare, però, che gli eventuali accorgimenti (cancellature, omissis) adottabili dall’Amministrazione potrebbero risultare del tutto insufficienti a garantire l’anonimato e la riservatezza laddove, soprattutto in contesti lavorativi di dimensioni ridotte, il semplice contenuto delle dichiarazioni possa agevolmente far risalire al soggetto che le ha rese (v. mansioni ricoperte, indicazione degli orari di lavoro o colleghi dello stesso reparto).

Un altro filone giurisprudenziale (ex multis Cons. St., sez. VI, n. 1842/2008) ha invece ritenuto legittimo il diniego secondo quanto previsto dal D.M. n. 775/1994 (Regolamento concernente le categorie di documenti, formati o stabilmente detenuti dal Ministero del lavoro e della previdenza sociale sottratti al diritto di accesso). Tali pronunce, al fine di coniugare l’esigenza di trasparenza ed imparzialità della PA di cui all’art. 22, L. 241/1990 rispetto ad altri interessi contrapposti quali il diritto alla riservatezza, hanno fatto leva sui casi di esclusione dal diritto di accesso di cui all’art. 24 L. 241 cit.; tra questi sono infatti espressamente citati i documenti che riguardano la vita privata o la riservatezza delle persone, con particolare riferimento, tra gli altri, all’interesse “professionale”.

Nella sentenza in oggetto, il Consiglio di Stato ha aderito all’orientamento più restrittivo sottolineando la prevalenza dell’interesse pubblico all’acquisizione di ogni possibile informazione, a tutela della sicurezza e regolarità dei rapporti di lavoro rispetto al diritto di difesa delle società sottoposte ad ispezione. Quel che maggiormente rileva è, a nostro avviso, che l’interesse pubblico rischierebbe di essere compromesso dalla probabile reticenza dei lavoratori nel caso in cui agli stessi non si accordasse il pieno diritto alla riservatezza. Il diritto di difesa, invece, risulterebbe comunque garantito dall’obbligo di motivazione (invero non sempre assolto in maniera puntuale) per eventuali contestazioni.

La sensazione è che, comunque, non si sia messa la parola fine alla vexata quaestio perché il Consiglio di Stato – pur ritenendo legittima la sottrazione all’accesso delle dichiarazioni dei lavoratori rese in sede ispettiva – ha comunque tenuto a ribadire che non vi può essere sul punto alcuna aprioristica generalizzazione in quanto andranno valutate di volta in volta le specifiche vicende contenziose. Talvolta, infatti, si potranno ritenere prevalenti le esigenze difensive che, però, non dovranno essere solo genericamente enunciate ma corrispondere ad un’effettiva necessità di tutela di interessi che si assumo lesi ed ammettendosi solo nei limiti in cui sia strettamente indispensabile la conoscenza di documenti contenenti dati sensibili ed informazioni riservate.

La questione, così posta, trova anche la nostra condivisione.

Vi è, però, un ulteriore disposto della sentenza e della circolare ministeriale su cui si vuole fare un’ultima riflessione: nella fattispecie i lavoratori vengono definiti quali “controinteressati” con il conseguente riconoscimento, anche dal punto di vista del procedimento amministrativo, di tutti i diritti inerenti a tale qualificazione. Ove si volesse ammettere la correttezza di tale qualificazione, in sede giudiziale, però, non si potrebbe parimenti valutare la dichiarazione testimoniale resa da detti lavoratori quale “fonte di prova” ma andrebbe più correttamente derubricata ad “interrogatorio libero”. Ciò, anche al fine di tentare di ristabilire la parità delle parti nel processo di opposizione ad ordinanza ingiunzione o avviso di addebito in cui il ricorrente (datore di lavoro) è convenuto in senso sostanziale nonostante anche in merito all’onere della prova non si sia ancora formato un orientamento giurisprudenziale consolidato.