26 Novembre 2016

Sequestro a maglie larghe

di Massimiliano Tasini
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La sentenza della Cassazione n. 39767, depositata all’esito dell’udienza dello scorso 21 luglio 2016, costituisce l’occasione per tornare sulla delicata questione della sfera di applicazione del sequestro, nella fattispecie finalizzata alla confisca di prevenzione patrimoniale.

La vicenda riguarda una ordinanza pronunciata dal Tribunale di Napoli con la quale era stata rigettata la richiesta di riesame proposta dal legale rappresentante di una Srl avente sede nella Repubblica di San Marino. L’ordinanza riguarda il sequestro preventivo di due immobili siti in Napoli ed emessa dal G.i.p. in relazione all’articolo 12-sexies della L. 356/1992.

Il Tribunale rilevava che uno degli imputati aveva reso dichiarazioni auto ed etero accusatorie, affermando di aver acquistato i beni immobili di cui sopra, intestandoli dapprima a congiunti – moglie e cognato -, e successivamente alla Srl sammarinese; il Tribunale stigmatizza l’evidente sproporzione tra i redditi dell’indagato, della moglie e del cognato, nonché la circostanza che l’accusa, ai fini dell’operatività del sequestro preventivo e della successiva confisca nei confronti del terzo, aveva assolto l’onere della prova, non limitandosi a richiamare l’assenza di dichiarazione dei redditi in Italia da parte della Srl, ma evidenziando le dichiarazioni dell’imputato e, a riscontro delle stesse, quelle rese dal legale rappresentante della Srl nell’ambito del procedimento di prevenzione, essendosi egli in tale sede dichiarato solo formale amministratore. A fronte di tali considerazioni, osserva ancora il Tribunale, a nulla rileva la documentazione prodotta dal ricorrente relativa al finanziamento utilizzato per l’acquisizione degli immobili, né rileva la generica affermazione di inattendibilità delle dichiarazioni rese dall’imputato.

Come noto, la L. 356/1992, articolo 12-sexies, comma 1, ha introdotto, con riferimento al soggetto condannato (o, ai fini cautelari, indagato) per determinati reati ivi tassativamente previsti una presunzione relativa di illecita accumulazione patrimoniale dei beni o delle altre utilità di cui non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica, trasferendo sul soggetto, che ha la titolarità o la disponibilità di beni, l’onere di giustificarne la provenienza, con l’allegazione di elementi che siano idonei a vincere tale presunzione. Qualora si tratti di beni intestati a un terzo, ma che si assume siano nella effettiva titolarità o disponibilità della persona condannata (o indagata) e, come tali, passibili di confisca, la prova circa l’illecita provenienza si deve muovere secondo precise direttrici:

  • da un lato, il giudice deve accertare sulla base delle concrete risultanze processuali la possibilità di sussumere il fatto in una determinata ipotesi di reato, senza però che ciò però comporti un sindacato sulla concreta fondatezza dell’accusa;
  • dall’altro, occorre dimostrare l’esistenza di una situazione che avalli concretamente l’ipotesi di una discrasia tra intestazione formale e disponibilità effettiva del bene, sì che possa affermarsi in base ad elementi fattuali che si connotino della gravità, precisione e concordanza, che il terzo intestatario si sia prestato alla titolarità apparente al solo fine di favorire la permanenza dell’acquisizione del bene in capo al condannato e di salvaguardarlo dal pericolo della confisca.

La Corte stigmatizza al riguardo che la presunzione di illecita accumulazione non opera per quanto concerne la titolarità o la disponibilità da parte del condannato di beni formalmente intestati a terzi: in relazione a questi, infatti, l’onere della prova incombe all’accusa (Sez. 5, n. 10123 del 28/05/1998).

Ma nel caso concreto, l’ordinanza impugnata è immune da vizi, in quanto, muovendo dalla premessa circa la sussistenza di un quadro di gravità indiziaria nei confronti dell’imputato, nel caso di specie in relazione ai delitti previsti dalla Legge Stupefacenti, peraltro sempre nella specie aggravati, ha evidenziato l’esistenza di una sproporzione reddituale nei termini sopra evidenziati, nonché l’esistenza di dichiarazioni rese dallo stesso imputato; ed a tal fine, ha osservato essere irrilevante valutare il reddito del terzo apparente proprietario, occorrendo piuttosto avere riguardo all’effettivo proprietario del bene, soggetto a confisca.

La questione assume grandissimo rilievo anche con riguardo alla sfera tributaria. Ed invero, la misura di prevenzione della confisca con sequestro anticipato di beni, in questo caso ex articolo 1 D.Lgs. 159/2011, ben può essere adottata laddove il contribuente utilizzi società per schermare patrimoni di provenienza illecita; ed al riguardo, la Cassazione n. 6061/2012 ha affermato che il cd. “Condono fiscale” non elimina l’originaria provenienza delittuosa dal danaro nel suo momento genetico, e conseguentemente consente di confermare la sussistenza dei presupposti della fattispecie criminosa (così anche la Cassazione n. 36913/2011); e parimenti, il condono non può essere assunto a giustificazione della sproporzione tra reddito e disponibilità dei beni (Cassazione n. 39204/2013).

Dunque, laddove sia prevedibile la confisca, ai sensi del citato D.Lgs. 159/2011, il Tribunale, nelle more, ben può disporre il sequestro anticipato, onde evitare che i beni, la cui detenzione sia accertata, possano essere dispersi, distratti e via così, e ciò anche avuto riguardo alla pericolosità del preposto; requisito, quest’ultimo, peraltro non più richiesto, per effetto delle modificazioni intervenute nella disciplina in commento negli anni 2008 e 2009, onde  oggi solo occorre dimostrare la sproporzione del reddito rispetto alla disponibilità dei beni, nonché la presunzione di derivazione illecita degli stessi, fatta ovviamente salva la prova contraria.

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