7 Giugno 2017

Reverse charge e non imponibilità per gli esportatori abituali

di Marco Peirolo
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Può accadere che una società venda normalmente due differenti tipologie di beni o servizi, di cui una soggetta a reverse charge e l’altra al regime Iva ordinario.

Se il cliente consegna alla società la dichiarazione d’intento, corredata dalla ricevuta di presentazione all’Agenzia delle Entrate, si pone il problema di come debbano essere trattate le operazioni poste in essere dalla società nel caso in cui il cliente abbia scelto di compilare il campo 2 della dichiarazione, che implica che la stessa si riferisca a più operazioni, fino a concorrenza dell’importo indicato.

Ipotizziamo che la società in questione venda rottami metallici, la cui cessione è disciplinata dall’articolo 74, commi 7 e 8, del D.P.R. n. 633/1972, con assolvimento dell’imposta in capo al cessionario, ed altri beni (es. silicio), soggetti ad imposta secondo le regole ordinarie. Nel rapporto con il cliente, che ha inviato la dichiarazione d’intento al fine di acquistare i beni in regime di non imponibilità di cui all’articolo 8, comma 1, lett. c), del D.P.R. n. 633/1972, utilizzando cioè il plafond previsto per gli esportatori abituali, sorge il dubbio se sia corretto che la società continui a vendere i rottami metallici con il sistema dell’inversione contabile nonostante il ricevimento della dichiarazione d’intento, considerando non imponibili soltanto i beni ceduti esclusi dal meccanismo del reverse charge.

Si ricorda, innanzi tutto, che l’utilizzo del plafond disponibile per effettuare acquisti di beni e servizi che, generalmente, non danno luogo ad un debito d’imposta siccome neutralizzato dal corrispondente credito d’imposta è stato ammesso dalla stessa Agenzia delle Entrate.

Nella nota n. 26853 del 15 febbraio 2006, in riferimento al sistema di autofatturazione previsto per i cessionari e committenti che acquistano beni e servizi nel territorio dello Stato da soggetti non residenti ivi non identificati ai fini Iva, l’Agenzia ha precisato che “il fatto che, in presenza di autofattura, non è configurabile, in generale, un’imposta a debito, salvo i casi di indetraibilità, non modifica la natura imponibile dell’operazione e la possibilità di spendere per essa – ancorché senza vantaggi economici – il plafond”.

Si tratta di un’indicazione che trae esplicito fondamento dall’articolo 42, comma 2, del D.L. n. 331/1993, che con riguardo agli acquisti intracomunitari di beni ammette l’utilizzo del plafond, puntualizzando che, “per gli acquisti intracomunitari effettuati senza pagamento dell’imposta a norma delle disposizioni di cui alla lettera c) del primo comma e al secondo comma dell’articolo 8 (…) non si applica la disposizione di cui alla lettera c) del primo comma dell’articolo 1 del decreto-legge 29 dicembre 1983, n. 742”, ossia l’obbligo di consegnare la dichiarazione d’intento al proprio fornitore.

Ne discende, come sottolineato dall’Agenzia, che, “anche in assenza di un effettivo vantaggio economico, il cessionario/committente potrebbe spendere il plafond disponibile per acquisti intracomunitari, senza peraltro adempiere all’obbligo di inviare la dichiarazione d’intento al proprio fornitore posto che, nel caso di specie, il destinatario della dichiarazione verrebbe a coincidere con il cessionario/committente stesso, obbligato ad integrare la fattura di acquisto”.

La possibilità di spendere il plafond non è, invece, configurabile quando l’operazione sia oggettivamente qualificabile come non imponibile, avendo l’Amministrazione finanziaria specificato che “le operazioni indicate nel primo comma dell’articolo 8-bis del D.P.R. n. 633 (come quelle elencate all’articolo 8, primo comma, lettere a) e b), e articolo 9, primo comma, stesso decreto) sono tutte oggettivamente non imponibili, per cui non è configurabile il rilascio della citata dichiarazione d’intento da parte dei cessionari che si trovano nella possibilità di avvalersi delle citate norme” (R.M. 8 gennaio 1985, n. 426587 e R.M. 11 ottobre 1984, n. 426218).

Nel caso esposto, è possibile ritenere che la dichiarazione d’intento emessa dal cliente riguardi esclusivamente l’acquisto di beni non rientranti nel sistema di inversione contabile, che assume pertanto preminenza rispetto al regime di non imponibilità previsto per gli esportatori abituali in considerazione della sua finalità antifrode.

In tal senso si è espressa l’Agenzia delle Entrate nella circolare n. 14/E/2015, prendendo peraltro in esame anche il caso dell’esportatore abituale che riceva dal fornitore una fattura rispetto alla quale non sia facile distinguere, anche alla luce delle clausole contrattuali, la parte soggetta al regime del reverse charge da quella soggetta all’applicazione dell’Iva nelle modalità ordinarie. Si afferma, in particolare, che, nella situazione considerata, “si dovrà procedere alla scomposizione dell’operazione oggetto del contratto, individuando le singole prestazioni assoggettabili al regime del reverse charge”.

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