6 Febbraio 2023

Permuta tra valute virtuali e dubbi sulla tassazione applicabile

di Francesco Paolo Fabbri
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La scheda di FISCOPRATICO

Dopo diversi anni nei quali è mancata una disciplina organica sugli aspetti fiscali e dichiarativi delle criptovalute, con l’articolo 1, commi 126147, L. 197/2022 (“Legge di Bilancio 2023”) è stata introdotta, per la prima volta nel nostro ordinamento, una disciplina tributaria per questo tipo di beni (anche definiti “valute virtuali”, “cripto-attività” eccetera), ossia quelle rappresentazioni digitali di valore e di diritti la cui diffusione è andata di pari passo con la tecnologia c.d. di “registro distribuito” di informazioni digitali (c.d. “Distributed Ledgers Technology”), la cui principale applicazione è rappresentata dalla blockchain.

È stata infatti stabilita, in modo esplicito, l’inclusione delle cripto-attività nell’ambito del quadro impositivo sui redditi delle persone fisiche.

Nello specifico, nell’articolo 67, comma 1, Tuir viene inserita una nuova categoria di “redditi diversi”, facente capo alla neo-introdotta lettera c-sexies), costituita dalle plusvalenze e dagli altri proventi realizzati mediante:

  • rimborso/cessione a titolo oneroso, oppure
  • permuta, o ancora
  • detenzione,

di valute virtuali, comunque denominate, non inferiori complessivamente a 2.000 euro nel periodo d’imposta.

Ciò che balza istantaneamente all’occhio è una sorta di “unicum” a livello di ordinamento fiscale, dal momento che risulta possibile che anche la mera detenzione di criptovalute dia luogo a proventi tassabili, fattispecie che costituisce difatti una sorta di eccezione alla regola generale che, relativamente ai beni, vede la tassazione solamente nel realizzo.

Con riferimento alle cripto-attività ciò si giustifica in quanto vi sono ipotesi nelle quali tali beni possono essere “vincolati” affinché se ne generino altri (come nel caso delle operazioni di mining, staking e airdrop): in dette ipotesi, quindi, la detenzione delle criptovalute risulta in qualche modo similare a quella dei redditi fondiari, derivanti da asset che parimenti producono “frutti”, motivo per cui anche questi ultimi sono sottoposti a imposizione per la sola detenzione.

Il richiamato articolo 67 Tuir, così come modificato dalla “Legge di Bilancio 2023”, specifica poi che non costituisce una fattispecie fiscalmente rilevante la permuta tra criptovalute, anche se solo in presenza di determinate condizioni.

L’ultimo periodo della citata lettera c-sexies) dispone infatti che “Non costituisce una fattispecie fiscalmente rilevante la permuta tra cripto-attività aventi eguali caratteristiche e funzioni”, espressione che dà tuttavia luogo ad alcuni interrogativi – anche di particolare rilievo – che portano alla necessità di un inquadramento preliminare.

Occorre tenere presente che, nel “mondo cripto”, la rivendita di valute virtuali può senz’altro avvenire avendo come contropartita le c.d. valute FIAT (aventi corso legale), oppure anche ottenendo altre criptovalute; anzi, tale tipo di operatività risulta particolarmente frequente nell’ambito di riferimento.

Ciò che rileva in simile frangente è il fatto che detti scambi tra cripto-attività possono avvenire tra beni analoghi (ad esempio bitcoin contro bitcoin, oppure ethereum contro ethereum) oppure con permuta tra diverse tipologie di simili beni.

Nello specifico, nonostante ad oggi esistano decine di migliaia di valute virtuali, esse possono essere sostanzialmente ricondotte alle seguenti “classi”:

  • currency tokens, che configurano mezzi di pagamento per l’acquisto di beni o servizi oppure strumenti finalizzati al trasferimento o investimento di denaro o di valori;
  • security tokens, i quali incorporano diritti economici legati all’andamento di un’iniziativa imprenditoriale (tipicamente il diritto di partecipare alla distribuzione dei futuri dividendi) e/o di diritti amministrativi (ad esempio diritti di voto su determinate materie);
  • utility tokens, rappresentativi di diritti diversi, legati alla possibilità di utilizzare il prodotto o il servizio che l’emittente intende realizzare (come può avvenire nel caso di licenza per l’utilizzo di un software ad esito del processo di sviluppo);
  • non fungible token (NFT), ossia token unici, rari e indivisibili nati tipicamente per rappresentare asset digitali (oggetti collezionabili su blockchain, opere d’arte digitali, proprietà nella realtà virtuale, biglietti per eventi e oggetti di gioco eccetera) o per certificare proprietà fisiche reali (recentemente si è visto il caso relativo agli immobili, auto, opere d’arte e proprietà intellettuali di vario genere).

La categorizzazione di cui sopra assume rilevanza in quanto, nonostante detta macro-distinzione, risulta alla data odierna molto difficile che anche cripto-attività della stessa tipologia possano essere realmente analoghe, almeno in termini di “caratteristiche e funzioni”.

Cosa che viene invece specificamente richiesta, dal richiamato ultimo periodo dell’articolo 67, comma 1, lettera c-sexies) del Tuir, ai fini dell’irrilevanza fiscale delle permute tra asset di questo genere.

La circostanza appena richiamata sarebbe quindi, evidentemente, in grado di porre nel nulla quest’ultima previsione sulla non imponibilità degli scambi tra valute virtuali; anche se, a questo proposito, può venire in ausilio – almeno a livello interpretativo – quanto riportato dalla relazione illustrativa alla “Legge di Bilancio 2023”.

Ed infatti, nella relazione all’allora disegno di legge (presentato alla Camera il 29 novembre 2022, A.C. 643)  si può notare una nota esplicativa della disposizione in esame, laddove si riportava che “ad esempio non assume rilevanza lo scambio tra valute virtuali, mentre assume rilevanza fiscale l’utilizzo di una cripto-attività per l’acquisto di un bene o un servizio o di una altra tipologia di cripto-attività (ad esempio l’utilizzo di una crypto currency per acquistare un non fungible token) o la conversione di una crypto currency in euro o in valuta estera”.

Sembra quindi che, secondo il legislatore, il riferimento alle caratteristiche e funzioni delle valute virtuali di cui si è detto non debba essere fatto a livello puntuale – in quanto, lo si ribadisce, ciò porterebbe sostanzialmente all’inapplicabilità in toto della stessa previsione, a causa delle (talvolta anche rilevanti) differenze tra valute virtuali afferenti alla stessa “classe” – bensì in termini di categoria di appartenenza.

Si tratta, evidentemente, di un sillogismo favorevole al contribuente, nella misura in cui amplia – o meglio, rende effettivamente fruibile – l’ambito applicativo della norma che rende fiscalmente irrilevanti gli scambi c.d. cripto su cripto.

Anche se, a ben vedere, simile argomentazione soffre di un limite non marginale, dato dal fatto che il contenuto della relazione illustrativa non assume rilevanza di fonte del diritto.

Questo perché, come noto, l’articolo 12, comma 1, primo periodo delle Preleggi al codice civile (sulla “Interpretazione delle leggi”) dispone espressamente che “Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dall’intenzione del legislatore”.

In proposito, al netto di ulteriori approfondimenti prettamente di linguistici, si può rilevare come la virgola che precede la locuzione “e dall’intenzione del legislatore” rende tale ultima parte del periodo servente rispetto alla frase antecedente, non potendovi quindi derogare ma dovendo essere letta e considerata unitamente ad essa.

Quanto sopra riportato ha essenzialmente due conseguenze da tenere a mente, ossia:

  • il primo canone ermeneutico da utilizzare per interpretare – ed applicare – le disposizioni di legge risulta sempre e comunque quello dell’interpretazione letterale (la c.d. “vox iuris”);
  • quest’ultimo può poi essere “corroborato” dall’intenzione del legislatore (la “voluntas legis”, riscontrabile, come nel caso in esame, dall’analisi dei lavori preparatori dei testi normativi), la quale può eventualmente sostituire l’interpretazione letterale ma solamente, si badi bene, se il tenore testuale del precetto non sia da sé in grado di fornire una soluzione rispetto al possibile significato da attribuire al medesimo.

Da notare che, in virtù di quanto appena riportato, si giustifica il noto brocardo latino secondo cui “in claris non fit interpretatio”, il quale indica infatti che, laddove si ha a che fare con una norma con un chiaro e preciso significato, non occorre procedere con alcuno sforzo interpretativo per “decodificarla”.

Pare quindi evidente che, in mancanza di chiarimenti ufficiali, segnatamente di carattere “normativo positivo” (ulteriori alla relazione illustrativa citata in precedenza), per i soggetti che effettuino simili permutazioni tra beni digitali può risultare particolarmente aleatoria la determinazione del corretto trattamento fiscale da applicare alla casistica in discorso; questo, soprattutto, qualora i valori a cui avvengono gli scambi risultino sufficientemente elevati.

Si tratta comunque di una fattispecie che, come già riportato, è molto comune per chi opera con i beni in discussione, motivo per il quale non pare che simile incertezza normativa possa – se non in casi rari – rappresentare un vero “freno” rispetto a questo tipo di attività di scambio.