30 Giugno 2014

Il leverage cash out a rischio di elusione

di Ennio VialGiovanni Valcarenghi
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Un’operazione in voga nella pratica professionale, soprattutto alcuni anni or sono, è stata quella che del c.d. “leveraged cash out”.

L’operazione è la seguente: i soci di una società di capitali ricca di utili vendono le quote della medesima, dopo averle rivalutate ai sensi dell’art. 5 della L. 448/2001 pagando l’imposta del 4% o del 2% a seconda che si tratti di partecipazioni qualificate o no, ad una nuova società avente la medesima compagine sociale e che assume quindi il ruolo di holding del gruppo.

In sostanza, la nuova holding acquisisce le quote indebitandosi presso i soci della vecchia società.

Il debito verrà rimborsato con la liquidità generata dai dividendi della società partecipata, ossia quella ricca di utili, che se distribuiti ai soci avrebbero scontato un regime impositivo particolarmente oneroso. Diversamente, come noto, la tassazione in capo alla holding è modesta.

L’Agenzia contesta che l’operazione di creazione di una holding, pur risultando legittima, dovrebbe naturalmente avvenire mediante conferimento e non mediante cessione di quote societarie. L’elusione, peraltro, emergerebbe in tutta evidenza nei casi in cui il contribuente proceda a fondere le due società. Ma come? Hai fatto di tutto per crearti la holding e già te ne disfi?

L’elusione potrebbe presentarsi in modo più subdolo nei casi in cui la holding rimane in vita ma il contribuente ha scelto di cedere le quote in luogo di procedere al conferimento delle stesse.

Tra gli indici che vengono spesso valutati per ritenere il comportamento sospetto si segnala:

  • il fatto che il prezzo per l’acquisto delle quote non venga corrisposto. Infatti, la società acquirente dovrà attendere la distribuzione dei dividendi per poter acquisire la liquidità necessaria;
  • il cedente ed il cessionariocoincidono nella sostanza. Il cedente è costituito dai soci mentre il cessionario è una società di capitali che presenta la medesima compagine societaria;
  • il corrispettivo non è legato all’effettivo valore delle quote acquistate;
  • il contratto di compravendita che viene stipulato prevede le clausole tipiche ma ad esse non viene generalmente dato seguito. Ad esempio, in caso di inadempimento derivante dal ritardo nei pagamenti il cedente non attiva alcuna procedura legale per favorire l’incasso.

L’operazione può rientrare in quella che noi qualifichiamo come “distribuzione pericolosa di utili”, tema che affronteremo nella sessione di approfondimento nella quinta giornata della prossima edizione del master breve.

Ad avviso di chi scrive non è possibile fare delle generalizzazioni e qualificare l’operazione che usa la cessione come elusiva tout court rispetto al conferimento.

Innanzitutto, non è pacifico che il conferimento risulti la soluzione più naturale rispetto alla cessione delle quote, ben potendo infatti il conferente cercare di evitare la perizia da conferimento in quanto particolarmente onerosa. L’elusione appare quindi riguardare una norma civilistica e non fiscale.

Va peraltro ricordato come in base all’art. 2465 del c.c., la perizia da conferimento è prevista anche in caso di acquisto da parte della società, per un corrispettivo pari o superiore al decimo del capitale sociale, di beni o di crediti dei soci fondatori, dei soci e degli amministratori, nei due anni dalla iscrizione della società nel registro delle imprese.

La cessione e il conferimento possono inoltre portare a medesimi risultati in quanto, nel secondo caso, il contribuente potrebbe ridurre il capitale sociale ritenuto esuberante senza creare un presupposto impositivo in capo al socio.

E’ appena il caso di ricordare, infatti, come a seguito del conferimento effettuato in base all’art. 9 del tuir il costo fiscalmente riconosciuto in capo al socio sia uguale al valore normale delle quote conferite, valore sostanzialmente simile a quello della rivalutazione. Una successiva riduzione del capitale sociale porterebbe ad una semplice riduzione del costo fiscalmente riconosciuto delle partecipazioni senza alcun profilo impositivo (art. 47 del tuir).

La vicenda, tuttavia, suggerisce la bontà del trust quale strumento alternativo alla holding.

Infatti, la disposizione delle quote in trust permette la tassazione dei dividendi in capo al trust opaco con l’aliquota Ires del 27,5% sulla quota imponibile del loro ammontare.

Tale regime impositivo, ancorchè di estremo favore, non può rappresentare un profilo di patologia dell’operazione e, come statuito dalla sentenza della Corte di Cassazione 19 novembre 2012 n. 20254, non può essere invocato l’abuso del diritto qualora i contribuenti deducano un insieme di ragioni economiche e familiari ampiamente che giustifichino la costituzione del trust e la intestazione ad esso di immobili di proprietà.

In sostanza, il trust non può essere aggredito se esistono giustificazioni in aspetti diversi dal mero risparmio fiscale.