9 Dicembre 2014

Attività commerciale ed elusione fiscale: quale sorte per le ASD?

di Guido MartinelliMattia Cornazzani
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La Sezione Tributaria della Corte di Cassazione, con la
sentenza n. 19751 del 19 settembre 2014, ha svolto interessanti considerazioni sul caso in cui, all’esito delle verifiche fiscali,
l’Ufficio contesti la natura giuridica di una associazione sportiva.
Il caso in esame attiene al ricorso avverso la sentenza della C.T.R. Puglia del 23.07. 2007, con cui il Collegio di seconde cure rigettava – previa riunione – gli appelli dell’Ufficio contro quattro sentenze della C.T.P. di Bari.
Quest’ultima aveva, infatti, accolto i ricorsi proposti da una associazione sportiva e dai singoli soci, disgiuntamente, contro gli avvisi di accertamento loro notificati, nei
quali venivano rispettivamente contestati: in capo all’associazione – ritenuta società di fatto in forza delle accertate finalità commerciali – maggior reddito di impresa a titolo di ILOR; in capo ai singoli soci – conseguentemente – maggior reddito a titolo di IRPEF, in forza della loro partecipazione all’asserita società.
La prima, interessante, osservazione è desumibile dall’esito del giudizio di legittimità: i giudici della Suprema Corte, infatti, hanno rigettato il ricorso dell’Ufficio in quanto
“la circostanza – posta alla base dell’avviso di accertamento – secondo cui l’associazione non si era adeguata alla normativa introdotta in materia, per finalità antielusive, dall’art. 5 D. Lgs. 460/97 (…) doveva ritenersi irrilevante ai fini della decisione, in ragione della inapplicabilità ratione temporis della detta novella efficace a decorrere solo dal 1 gennaio 1998, laddove l’avviso impugnato concerneva le annualità 1995, 1996, 1997.
La massima sopra riportata contribuisce – senza soluzione di continuità – ad irrobustire l’orientamento giurisprudenziale, consolidato e risalente, secondo cui
“gli enti di tipo associativo possono godere del trattamento agevolato previsto dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 111 (pre riforma 2004, ndr, in materia di IRPEG
) e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 4, (in materia di IVA
) – come modificati, con evidente finalità antielusiva, dal D. Lgs. n. 460 del 1997, art. 5 – a condizione non solo dell’inserimento, negli loro atti costitutivi e negli statuti, di tutte le clausole dettagliatamente indicate nel D. Lgs. n. 460 cit., art. 5, ma anche dell’accertamento – effettuato dal giudice di merito con congrua motivazione – che la loro attività si svolga, in concreto, nel pieno rispetto delle prescrizioni contenute nelle clausole stesse” (dal testo della Cass. Civ. n. 11456/10, si vedano anche Cass. Civ. n. 22598/06 e 16032/05).
In altre parole, (purtroppo) non si è certo in presenza di una solenne affermazione del principio di efficacia temporale delle norme tributarie ex art. 3 comma 1 Statuto del Contribuente; tuttavia merita di essere condivisa la statuizione della Corte di Cassazione laddove censura il macilento tentativo dell’Ufficio di applicare ai periodi d’imposta oggetto di verifica, ancorché in chiave antielusiva, una norma entrata in vigore successivamente alla verifica medesima.
Tale considerazione permette di proporre una seconda osservazione attinente, in particolare, ai motivi proposti dal ricorrente in Cassazione.
Nel primo motivo il ricorrente, dapprima, eccepisce la possibilità di inquadrare come società commerciale il soggetto sottoposto a verifica nel caso in cui
“dall’analisi e dagli elementi raccolti si accerti la carenza dei principi di trasparenza nella gestione e di democraticità della struttura, nonché il mancato perfezionamento di finalità di solidarietà sociale”. Nel secondo motivo l’Ufficio prosegue individuando in capo ”
al contribuente l’onere di fornire la prova contraria in ordine alla esistenza dei requisiti previsti dall’art. 111 TUIR (pre riforma, ndr
) nonché dalla L. 398/91 e dal codice civile” ed infine conclude per l’attribuzione del maggior reddito accertato in capo all’associazione secondo le modalità previste per la società di fatto.
In prima battuta, potrebbe apparire che la ricostruzione proposta dal ricorrente attraverso i tre illustrati quesiti rimanga priva di un’esauriente risposta; del resto
, la Suprema Corte rigetta il ricorso rilevando che “il motivo è inammissibile perché lo stesso ed i relativi quesiti non investono la ratio decidendi della sentenza impugnata”.
Oggetto della censura da parte della Corte è il tentativo dell’Ufficio di ascrivere la condotta dell’associazione e dei soci al paradigma dell’elusione fiscale. Se si accetta tale considerazione, l’argomento della Suprema Corte, sotteso alla succinta motivazione della sentenza in commento, non può che essere condivisibile, per almeno due buone ragioni.
La prima, evidente, è costituita dalla circostanza che
la “scelta difensiva” dell’Ufficio di ricorrere alla novella introdotta – in chiave antielusiva – dal D. Lgs. n. 460/1997, finisce per rivelarsi “non azzeccata” in quanto priva del necessario supporto normativo, di fatto inapplicabile ratione temporis al caso concreto.
La seconda, non meno importante, permette di porre in discussione la tesi proposta dall’Ufficio poiché, prima ancora di essere priva di un saldo ancoraggio normativo, è incongruente dal punto di vista sostanziale. Invero
, ritenere che il mancato adeguamento alla normativa introdotta dall’art. 5 D. Lgs. n. 460/1997 – addirittura non esigibile per i periodi d’imposta oggetto della verifica – potesse comunque integrare gli estremi della condotta finalizzata al conseguimento di un vantaggio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili, costituisce senza dubbio una forzatura interpretativa del concetto stesso di elusione fiscale stessa.