14 Novembre 2015

Rifiuto alla riduzione dell’orario di lavoro: attenzione al licenziamento

di Luca Vannoni
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In molte situazioni in cui vi è un calo del ritmo produttivo, le riduzioni dell’orario di lavoro attraverso trasformazioni dei rapporti a tempo pieno in part time incontrano un ostacolo normativo non semplice da superare: il primo comma, dell’articolo 8, D.Lgs. 81/2015 stabilisce infatti che il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale, o viceversa, non costituisce giustificato motivo di licenziamento, norma che di fatto ripropone quanto previsto dall’articolo 5, primo comma, D.Lgs. 61/2000.

Sull’interpretazione delle norme richiamate è intervenuta recentemente la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 21875/2015.

Il caso riguardava una lavoratrice, direttrice sanitaria di un Centro di Medicina nucleare, ruolo svolto insieme a un altro lavoratore, licenziata per giustificato motivo oggettivo: la necessità di riduzione dei costi aveva portato l’azienda a proporre la trasformazione a tempo parziale ai due direttori sanitari in forza, ipotesi accettata dal lavoratore ma non dalla lavoratrice, successivamente licenziata.

 Nei primi due gradi di merito, l’impugnazione del licenziamento non è stata accolta, in quanto è stato ritenuto giustificato da motivi economici dimostrati e da scelte organizzative insindacabili e che non avesse carattere distorsivo o discriminatorio.

La Cassazione ha ribaltato l’esito del merito sulla base delle seguenti ragioni. Innanzitutto evidenzia che i giudici non hanno valutato la successiva delibera ASL, 3 mesi dopo il licenziamento, che assegnava commesse al Centro di Medicina per circa 1.200.000 euro, superiori a quelle dell’anno precedente. Per configurare un giustificato motivo oggettivo, il deterioramento della situazione finanziaria avrebbe infatti dovuto presentarsi nel momento dell’intimazione del licenziamento come dovuto a eventi non temporanei e contingenti, ma prevedibilmente destinati a protrarsi nel tempo.  

Inoltre, aggiunge la Cassazione, non concorre a dimostrare la sussistenza del giustificato motivo oggettivo l’indisponibilità della lavoratrice a ridurre il proprio orario di lavoro, in quanto l’articolo 5, primo comma, D.Lgs. 61/2000 (ora abrogato e sostituito dal comma 1 dell’art. 8 del D.Lgs. 81/2015) stabilisce che il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale, o viceversa, non costituisce giustificato motivo di licenziamento. Il datore di lavoro ha infatti l’onere di dimostrare, in caso di licenziamento di lavoratore che rifiuti la riduzione d’orario, che sussistono ragioni effettive economico-organizzative in base alle quali la prestazione non può essere mantenuta a tempo pieno.

A supporto viene richiamata la Direttiva 97/81/CE del 15 dicembre 1997, dove la possibilità di recesso è considerata legittima solo se sorretta da esigenze organizzative e gestionali serie e nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede.

 

A bene vedere, la Cassazione non nega la possibilità di procedere con il licenziamento in caso di rifiuto alla trasformazione a tempo parziale per ragioni oggettive, ma richiama la necessità che la crisi, che porta a una definitiva riduzione oraria, sia di natura strutturale e non contingente, tale da non rendere tollerabile il mantenimento della prestazione a tempo pieno. Ricade sul datore di lavoro un onere probatorio non solo, quindi, relativo alla crisi in sé, ma riferito all’incompatibilità economica e organizzativa del tempo pieno.

Il rischio, nel caso in cui non risultino provati i requisiti di legittimità del licenziamento, è che esso sia considerato discriminatorio e, quindi, tutelato dalla reintegrazione, anche nella nuova disciplina a tutele crescenti.