22 Maggio 2024

Per la plusvalenza immobiliare non conta il valore ai fini del registro

di Cristoforo Florio
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La scheda di FISCOPRATICO

La recente pronuncia della Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado della Calabria (sentenza n. 194 del 17.1.2024) offre lo spunto per alcune riflessioni sul tema dell’accertamento tributario delle plusvalenze immobiliari, conseguite da persone fisiche, nell’ambito dei redditi diversi.

Nella sentenza richiamata viene enunciato il seguente principio: è illegittimo il provvedimento di accertamento tributario che accerti la plusvalenza immobiliare, ai fini Irpef, solo sulla base dei valori dichiarati ai fini dell’imposta di registro nell’atto di compravendita.

Al riguardo, va ricordato che, antecedentemente all’entrata in vigore dell’articolo 5, comma 3, D.Lgs. 147/2015, nella fase di accertamento di una plusvalenza patrimoniale realizzata a seguito di cessione di beni a titolo oneroso, l’Amministrazione finanziaria era legittimata a procedere in via presuntiva sulla base dell’accertamento di valore effettuato in sede di applicazione dell’imposta di registro, restando a carico del contribuente l’onere di superare la presunzione di corrispondenza del prezzo incassato col valore di mercato accertato in via definitiva in sede di applicazione dell’imposta di registro, dimostrando di aver in concreto venduto ad un prezzo inferiore.

Il criterio induttivo adottato dal Fisco trovava peraltro conferma nell’orientamento della Corte di cassazione, la quale – a più riprese (sentenza n. 25290/2014, sentenza n. 12632/2012, sentenza n. 11012/2012, sentenza n. 22869/2011 e sentenza n. 18705/2010) – aveva avallato tale modalità accertativa, nonostante l’orientamento contrario di parte della giurisprudenza di merito (C.T. Prov. Reggio Emilia sentenza n. 43/01/2009 e C.T. Prov. Reggio Emilia sentenza n. 84/03/2015) e della dottrina.

Da un lato, quindi, vi era la concreta e oggettiva difficoltà per il contribuente di fornire una prova contraria alla presunzione relativa adottata dall’Agenzia delle entrate e, dall’altro, vi era (e vi è tutt’ora) una notevole diversità tra i principi di determinazione della base imponibile ai fini dell’imposta di registro (calcolata come regola generale in base al valore normale) e quelli che regolamentano la base imponibile ai fini Irpef, con particolare riguardo alle plusvalenze immobiliari conseguite nell’ambito dei redditi diversi (calcolata come differenza tra il corrispettivo di vendita incassato ed il prezzo di acquisto del bene, aumentato di ogni altro costo inerente al bene medesimo).

Tutto ciò determinava una situazione di ingiusta disparità tra contribuenti e Amministrazione finanziaria, cui ha posto rimedio l’entrata in vigore dell’articolo 5, comma 3, D. Lgs. 147/2015, citato dai giudici calabresi nella richiamata sentenza n. 194/2024.

Mediante tale norma di interpretazione autentica (che, in quanto tale, esplica efficacia retroattiva) è stato stabilito che l’Amministrazione finanziaria non può procedere ad accertare, in via induttiva, una plusvalenza patrimoniale realizzata a seguito di una cessione di immobile o di azienda solo sulla base del valore dichiarato, accertato o definito ai fini di altra imposta commisurata al valore del bene (ad esempio, l’imposta di registro), dovendo il Fisco individuare ulteriori indizi, gravi, precisi e concordanti, che supportino tale accertamento (Cassazione n. 22728/2020).

In concreto, l’eventuale accertamento ai fini delle imposte sui redditi potrebbe essere possibile solo nel caso in cui l’Agenzia delle entrate sia in grado di fornire elementi di prova ulteriori, tra cui – secondo quanto indicato dalla giurisprudenza di legittimità (Cassazione n. 1823/2017, Cassazione n. 11471/2019 e Cassazione n. 6135/2016) – vi sarebbero, a titolo esemplificativo:

  • le tariffe di vendita indicate negli annunci pubblicati;
  • le differenze rispetto ai prezzi applicati per analoghe tipologie di immobili;
  • un corrispettivo dichiarato insufficiente a garantire un utile adeguato;
  • le dichiarazioni rese dagli acquirenti.

La normativa contenuta nel sopra citato articolo 5, D.Lgs. 147/2015, ha, quindi, indubbiamente avuto il pregio di ampliare le tutele per le parti venditrici di immobili “plusvalenti”, come è accaduto proprio nella fattispecie trattata nella sentenza in commento, con la quale i giudici hanno rigettato l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate avverso la sentenza di primo grado che aveva avuto esito vittorioso per il contribuente (sentenza n. 6142/2018). Ciò in quanto la base imponibile ai fini Irpef è data non già dal valore (normale) del bene, ma dalla differenza tra i corrispettivi percepiti nel periodo di imposta e il prezzo di acquisto del bene ceduto, aumentato di ogni altro costo inerente al bene medesimo.

Da ultimo si evidenzia che la sentenza in discussione ha, poi, evidenziato che l’accertamento della plusvalenza avrebbe dovuto riposare anche su altri parametri, desumibili, ad esempio, dai valori a fini Imu, o da altri dati forniti da pubbliche istituzioni sul valore degli immobili, cosa che non è stata effettuata dall’Amministrazione appellante.

Sul punto, tuttavia, si ritiene che il richiamo ai “valori a fini Imu” non appaia essere propriamente in linea con tutto quanto sopra illustrato, atteso che dette tipologie di valori (“valore venale” o “valore catastale”) poco hanno a che fare con il concetto di “corrispettivo incassato”, che invece dovrebbe guidare, ai fini Irpef, la determinazione dei redditi diversi rappresentati dalle plusvalenze immobiliari.