25 Agosto 2015

Le cambiali non assolte stoppano il redditometro

di Maurizio Tozzi – Comitato Scientifico Master Breve 365
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La Corte di Cassazione nel luglio scorso si è espressa con due interessanti sentenze in ordine all’argomento “difesa” dal redditometro, premiando sempre di più il lato costituzionalmente garantito della corretta tassazione. La problematica sicuramente più delicata riguarda l’impatto accertativo delle spese sostenute, che se in precedenza subivano una ripartizione in quinti (nell’anno di sostenimento della spesa e nei 4 precedenti, modalità applicata per i controlli fino a tutto il 2008), per gli accertamenti dal 2009 in poi sono interamente imputate nell’anno di sostenimento. Nel nuovo redditometro appare inutile sottolineare che proprio la componente “spesa sostenuta” è decisiva ai fini accertativi, dato che sul piano induttivo viene attribuito solo un ruolo marginale alle spese collegate ai c.d. “elementi certi” (in primis, auto e casa), essendo invece stata eliminata la rilevanza degli altri indicatori Istat.

Il parallelo “spesa sostenuta=reddito” non può che essere attestato ad un livello presuntivo, potendo il contribuente fornire nel modo più ampio possibile una valida prova contraria. D’altra parte, le spese possono essere sostenute in vario modo e non necessariamente con il reddito dichiarato, sia sufficiente considerare gli importi ricevuti a prestito (mutuo, leasing, etc), quelli ottenuti a seguito di donazione o successione, gli importi tassati in maniera separata o mediante imposizione sostitutiva o ancora forfettaria e via dicendo. Il limite all’accertamento è soprattutto rappresentato dall’articolo 53 della Costituzione, in forza del quale un contribuente non può vedersi attribuire un reddito superiore al reale; inoltre, sul fronte difensivo al contribuente non può essere richiesta una “prova” diabolica o superiore rispetto a quanto statuito dalla normativa, essendo sufficiente la dimostrazione della disponibilità degli importi utilizzati per le spese che hanno originato il controllo.

Due sono gli elementi da vagliare in rigida sequenza:

  1. il reale sostenimento della spesa;
  2. assodato il primo punto, la disponibilità degli importi per sostenere la spesa.

Quanto al primo elemento, la Corte di Cassazione ripetutamente ha evidenziato che bisogna far riferimento all’effettivo esborso sostenuto, non potendo formare la base accertativa gli ammontari che il contribuente ancora non provvede a pagare o che mai ha pagato nel tempo. È il caso, ad esempio, del c.d. atto simulato, circostanza in cui un evento (ad esempio, l’acquisto di un immobile o di quote societarie), in realtà non è mai avvenuto. Sul tema è utile richiamare, tra le decisioni recenti, la sentenza n. 21442 depositata il 10 ottobre 2014, che in relazione alle operazioni contestate attinenti versamenti effettuati per aumento di capitale di società partecipate con conseguente recupero reddituale, ha annullato l’accertamento redditometrico essendosi in presenza di “fattispecie artatamente configurate al solo fine di accedere a contribuzioni erariali”, con la conseguenza che “gli aumenti di capitale erano privi di reale consistenza e di apprezzabili elementi reddituali non dichiarati”, oppure l’ordinanza n. 17805 del 2012, in cui la Suprema Corte, pur ricordando che la sottoscrizione di un atto pubblico contenente la dichiarazione di pagamento di una somma di denaro da parte del contribuente, “può costituire elemento sulla cui base determinare induttivamente il reddito da quello posseduto, in base all’applicazione di presunzioni semplici”, sottolinea come sia sempre possibile per il contribuente fornire la dimostrazione della mancanza di una disponibilità patrimoniale, essendo questa meramente apparente.

In tale direzione si colloca la sentenza n. 15289 depositata in cancelleria il 21 luglio 2015, che ha accolto il ricorso del contribuente proprio sull’assunto che la spesa sostenuta era inferiore a quella accertata dall’Amministrazione finanziaria. In particolare, nel caso in questione l’acquisto di un’attività aziendale era stato effettuato parte in contanti e parte mediante cambiali, queste ultime però non assolte e poi cedute con accollo ad un nuovo acquirente, con conseguente richiesta del soggetto accertato di prendere in considerazione solo l’importo realmente erogato per l’acquisto. Nei seguenti termini si esprime la Suprema Corte: “(…) non è sufficiente l’acquisto di un bene, ove lo stesso sia stato pagato in parte in contanti e in parte con emissione di cambiali; siffatto acquisto, invero, per la detta parte (…) non comporta un’attuale erogazione di spesa per incrementi patrimoniali e, dunque, non costituisce effettiva ed attuale espressione di capacità di economica; il pagamento di un corrispettivo con cambiali non può infatti essere assimilato ad un pagamento in contanti, in quanto le cambiali costituiscono una promessa di pagamento futuro di una somma di denaro di cui il soggetto al momento dell’emissione non dispone”.

In relazione, invece, al soddisfacimento della prova difensiva, la posizione che si è sempre più consolidata dalla Corte di Cassazione è riassunta soprattutto nella sentenza n. 17663, depositata il 6 agosto 2014, (ma si rinvia anche alle sentenze n. 6396 n. 8995 del 2014), secondo cui:

– il contribuente non deve fornire nessuna prova circa l’effettiva destinazione della disponibilità economica all’incremento patrimoniale, dovendo solo dimostrare l’esistenza della stessa. Inoltre, non deve essere nemmeno provata la provenienza delle fonti utilizzate (sentenza n. 6396 del 2014);

– atteso il tenore letterale del precedente comma 6 dell’articolo 38 del DPR 600/73, secondo cui

L’entità di tali redditi (ossia le disponibilità economiche utilizzate)
e la durata del loro possesso devono risultare da idonea documentazione
”, pur non esistendo uno specifico obbligo a dimostrare che dette disponibilità siano state utilizzate per la copertura delle spese contestate, comunque è necessaria la “…
prova documentale su circostanze sintomatiche del fatto che ciò sia accaduto (o sia potuto accadere)”. La citata previsione ha
“…l’indubbia finalità di ancorare a fatti oggettivi (di tipo quantitativo e temporale) la disponibilità di detti redditi per consentire la riferibilità della maggiore capacità contributiva accertata con metodo sintetico in capo al contribuente proprio a tali ulteriori redditi” (sentenza n. 8995 del 2014).

In perfetta sintonia con la richiamata posizione si colloca di recente la sentenza n. 14885 depositata in cancelleria il 16 luglio 2015, nel qual caso è stato respinto il ricorso dell’Amministrazione Finanziaria e confermata la tesi difensiva del contribuente, che aveva dimostrato in maniera adeguata che gli ammontari utilizzati per l’acquisto dell’immobile avvenuto nel 2008 erano stati ottenuti in forza di una precedente vendita di un capannone avvenuta nel 2006. Anche in questa ipotesi non è stata ritenuta obbligatoria la dimostrazione di aver utilizzato gli importi in questione, ritenendo comunque sufficiente la “prova documentale su circostanze sintomatiche del fatto che ciò sia accaduto (o sia potuto accadere)”.

Il redditometro, in conclusione, deve essere inquadrato nella giusta misura: si tratta di una presunzione accertativa cui è possibile opporre una valida prova difensiva, non rigida bensì ampia fino all’attestazione della mera simulazione dell’atto posto a base del controllo, mentre sul fronte economico è sufficiente dimostrare la disponibilità degli importi realmente impiegati nell’acquisto. Fatto questo, l’accertamento non può più essere sostenuto.