12 Settembre 2015

La delicatezza dei reati tributari da patologie sulla riscossione

di Comitato di redazione
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Negli ultimi anni, complice la crisi finanziaria che ha colpito le aziende, si sono infittite le ipotesi di ricorrenza di reati tributari legati a mancati versamenti, tanto nel comparto dell’IVA che di quello delle ritenute. Vista, poi, la dilagante moda dell’utilizzo spregiudicato delle compensazioni, il Legislatore aveva ritenuto di estendere le conseguenze penali già previste per altre fattispecie (reclusione da sei mesi a due anni) a chiunque non versasse le somme dovute, utilizzando in compensazione crediti non spettanti o inesistenti per un ammontare superiore a cinquantamila euro per ciascun periodo d’imposta.

La disposizione è stata poi oggetto di numerosi approfondimenti, al fine di tentare di comprendere cosa fossero in realtà i crediti “non spettanti o inesistenti”.

Tra le dispute, ad esempio, è insorta anche quella relativa all’utilizzo in compensazione di somme oltre la soglia massima ammissibile: spesso, infatti, viene richiesto dai clienti cosa possa accadere ove si operi una compensazione in spregio del limite massimo concesso dalla normativa.

Della vicenda si è recentemente occupata la Cassazione (Terza Sezione penale) n. 36393 del 9 settembre scorso, stabilendo che l’articolo 34 della Legge 388/2000 prevede che, oltre il limite di € 516.456,90 il credito non possa essere compensato, ma debba essere chiesto a rimborso o postergato in compensazione l’anno successivo. Ciò significa che il credito, certo e determinato nel suo ammontare complessivo, per la parte eccedente i 516.456,90 euro non è ancora esigibile.

Per poterlo esigere occorre attendere la liquidazione della pratica di rimborso o attendere il periodo di imposta successivo per procedere alla compensazione (in tal senso Cassazione n. 3367 del 26.1.2015).

Pertanto, in tema di reati tributari, ai fini della configurabilità del reato previsto dall’art. 10-quater del D.Lgs. n. 74 del 2000, per credito “non spettante” si intende quel credito che, pur certo nella sua esistenza ed esatto ammontare, sia, per qualsiasi ragione normativa, ancora non utilizzabile (ovvero non più utilizzabile) in operazioni finanziarie di compensazione nei rapporti fra il contribuente e l’Erario.

La norma incriminatrice punisce la condotta di chi utilizzi in compensazione nelle dichiarazioni di imposta, crediti non spettanti ovvero inesistenti, per un ammontare superiore, per ogni periodo di imposta, ad Euro 50.000,00 precisandosi che “mentre il concetto di credito inesistente è di facile ed intuibile identificazione (essendo chiaramente tale il credito del quale non sussistono gli elementi costituitivi e giustificativi), la nozione di credito non spettante, non può essere ricondotta al concetto di mera non spettanza soggettiva (essendo evidente che il portare, eventualmente, in detrazione un credito tributario, pur astrattamente esistente ma riferito ad altro soggetto, integra gli estremi della compensazione con un credito inesistente o, meglio, inesistente relativamente alla posizione del soggetto che operi la compensazione) ovvero alla pendenza di una condizione al cui avveramento sia subordinata l’esistenza del credito (infatti, anche in questo caso, laddove si tratti di condizione sospensiva, fintanto che essa sia pendente, il credito, trattandosi di fattispecie e formazione progressiva, ancora non è sorto – esso è, pertanto, inesistente -, mentre, se si trattasse di condizione risolutiva, una volta verificatasi quest’ultima, il credito stesso sarebbe definitivamente venuto meno)“.

In sostanza, contrariamente a quanto si possa pensare, lo sforamento del tetto massimo di importo compensabile, ovviamente al superamento delle soglie previste per legge, determina ricadute di natura penale, nonostante il contribuente sia legittimo titolare di un credito non contestato.

Nell’ambito della attuazione dei decreti delegati della Riforma fiscale, si decide di riscrivere completamente la norma sopra commentata come segue:

  1. è punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n.241, crediti non spettanti, per un importo anno superiore a cinquantamila euro;
  2. è punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, crediti inesistenti per un importo annuo superiore ai cinquantamila euro.

Le nuove disposizioni, se resterà fermo il testo del decreto approvato dal CDM in 2^ lettura, andranno in vigore dal 2017.

Come si nota, si è deciso di differenziare in due differenti commi l’ipotesi del credito non spettante, rispetto a quella del credito inesistente; una sanzione più lieve è prevista per la prima ipotesi, mentre si registra un aggravio per la seconda.

Ma, nella sostanza, non sembra variare il cuore del problema: se, come prima affermato, la Cassazione ritiene che lo sforamento del tetto massimo di compensazione (oggi aggiornato a 700.000 euro) configurasse – nel passato – l’ipotesi di utilizzo di credito non spettante, la situazione non muterà nemmeno applicando i nuovi principi.

Sembra allora di doversi risolvere la questione prospettata in apertura in senso completamente negativo per il contribuente; infatti, non solo lo sforamento del tetto produce conseguenze di natura amministrativa, ma anche ricadute di natura penale.

Il credito esiste, è del contribuente, ma se lo utilizza in misura eccedente a quella concessa si ritrova a vestire i panni del delinquente, al pari di chi non versa le somme per importi oltre soglia.

La evidente differenza che sussiste tra le due ipotesi è che, nel primo caso, il credito è del contribuente (e quindi debitore è l’Erario), mentre nel secondo il credito è dell’Erario (quindi debitore è il contribuente).

Ci pare allora quanto mai strano che si possa commettere un reato per avere utilizzato crediti propri; più appropriata sarebbe solo la previsione della sanzione amministrativa (peraltro del 30%).

In questa ipotesi, pertanto, dobbiamo dire che l’intervento della Legge Delega non ha risolto il problema, sempre che siano corrette le conclusioni cui è giunta la Cassazione.