12 Gennaio 2015

I cattivi propositi per l’anno nuovo

di Michele D’Agnolo
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Ogni volta che inizia un nuovo anno siamo portati, non so se per inguaribile ottimismo o per conclamata idiozia, a formulare una serie infinita di buoni propositi. Li snoccioliamo bellamente, nella vana speranza di riuscire a realizzarli.

Tutti noi vorremmo mantenere una dieta, andare assiduamente in palestra, riprendere il nostro hobby, passare più tempo con il nostro amore o con i nostri figli, rallentare un po’ i ritmi, trovare tempo per oziare, dormire più di cinque ore per notte. O anche semplicemente lavorare meglio, senza sentirci sempre con l’acqua alla gola.

Travolti dalla quotidianità, imbozzolati nella routine e nei menage familiari e lavorativi, ogni conato di cambiamento assomiglia ai defatiganti e inutili tentativi del topo di uscire dalla gabbia. Condannati ai lavori forzati e fatti sempre all’ultimo momento e alla “volemose bene” e con la sola possibilità nel tempo libero di espletare le funzioni vitali minime, ma con la spada di Damocle del lavoro ancora da svolgere.

Quasi sempre, i buoni propositi dell’anno precedente sono più o meno gli stessi dei precedenti e anche dei prossimi, perché nella realtà non è cambiato nulla.

Il nostro cervello è pigro, lavora al risparmio come la batteria di un laptop. Siamo programmati per eseguire routine, siamo costruiti per essere refrattari al cambiamento e soprattutto adottiamo quasi sempre nell’affrontare il cambiamento le stesse strategie che abbiamo utilizzato in passato, e quindi il cambiamento giocoforza non si realizza.

Inoltre, siamo condizionati dal consenso e dall’ambiente che ci circonda e nel quale operiamo e quindi se in uno studio professionale l’unica persona che vuole cambiare le cose siamo noi, ne usciremo senza alcun risultato e psicologicamente distrutti. Lo studio è omeostatico, se lo solleciti tende a rispondere con un rimbalzo, come un perfetto muro di gomma e ti riporta allo status quo.

Per non uccidere la speranza, potrebbe allora essere opportuno cambiare ottica e provare a pensare, al contrario, a formulare – magari per iscritto – una serie di cattivi propositi per il 2015. Visto che quelli buoni non si verificano mai, ribaltiamo la prospettiva e cerchiamo almeno di migliorare il valore previsionale dei nostri pronostici. Avremo così il vantaggio di soffrire di molte meno frustrazioni quando andremo a fare il bilancio dell’anno appena iniziato. E qualsiasi minimo cambiamento positivo sarà un modo per smentirci dal quale però oltre alla beffa del destino avremo almeno un risultato positivo.

Si tratta di un esercizio non nuovo in psicologia. Ad esempio Giorgio Nardone, illustre studioso e consulente in tema di cambiamento ha posto come esercizio per il superamento della camicia di forza posta dalle logiche tradizionali di problem solving l’approccio del “come fare per peggiorare le cose”.

Potremo allora provare a immaginare non solo come andranno le cose il prossimo anno, cioè come al solito, ma addirittura a come potremmo fare per farle peggiorare ulteriormente.

Questo modo alternativo e a tratti sardonico di riscoprire noi stessi e lo studio in cui lavoriamo ci aiuterà a metterne a nudo i punti critici. E’ per molti versi liberatorio ripensare a quello che facciamo noi e i nostri colleghi, collaboratori, dipendenti, praticanti cercando di enfatizzare le nostre e le loro carenze invece di ignorarle, nasconderle, minimizzarle.

E allora potremmo cominciare a valutare con occhio nuovo il nostro modo di fare management. Perché dare ai nostri collaboratori una direzione strategica chiara e definita quando invece possono indovinarla? Non è forse più creativo?

La frase “quest’anno voglio trovare il tempo per gestire meglio lo studio” diventa “non solo anche quest’anno sarò certamente latitante e impreciso nella gestione dello studio ma andrò in studio ancora meno e gestirò le persone ancora più approssimativamente e controvoglia, fino a farne scoppiare psicologicamente almeno un paio. Poi cadrò dal pero e mi chiederò come mai sono demotivate e non lavorano più come una volta oppure perché se ne sono andate”.

Seguendo la logica dei contrari e dell’eccesso, non solo non dovremo dare allo studio una direzione strategica né comunicarla al nostro team, ma ci lasceremo completamente andare in balia dei capricci dei clienti e delle follie del legislatore. Magari potremmo portare in studio un fiammifero e una tanica di cherosene e fare, per una volta, i fuochi d’artificio con le pratiche.

Solleciteremo che i clienti ci propongano quesiti dell’ultimo momento, in modo da doverli affrontare sempre in fretta e fuori orario. Anzi, faremo lo sconto a chi ci dà meno tempo e meno dati e pretende le migliori risposte.

Tollereremo il loro disordine e le loro mancanze in termini di consegna della documentazione e anzi, li inviteremo a buttare via una carta ogni tanto per vedere se siamo capaci di fare il lavoro lo stesso anche senza le pezze d’appoggio.

Passeremo non solo interminabili ore durante la settimana ma anche i sabati e le domeniche mattina a dare la caccia ai fascicoli perduti.

Sceglieremo collaboratori cari e inadatti alla mansione, non li prepareremo minimamente a livello formativo e diremo loro di arrangiarsi, non facendoci mai più vedere. Quelli bravi, faremo in modo che si demotivino oppure che se ne vadano. Quando i nostri dipendenti e collaboratori saranno particolarmente incompetenti e magari un pochino aggressivi con la clientela, li promuoveremo. Se saranno antipatici con i colleghi, per premio gli daremo una stanza tutta per loro. e quando malmeneranno un cliente, faremo finta di niente pur di non dover affrontare una conversazione difficile o un’altra noiosissima selezione. Se dovessimo disgraziatamente vedere che vanno d’accordo tra loro, sarà nostro preciso intendimento mettere zizzania per stimolarne la competitività. 

Anche se il software dello studio è scritto con un codice più antico di quello di Hammurabi e gira sulle macchine di Leonardo cercheremo di non cambiarlo. E quello che abbiamo di usarlo poco e male, solo per le funzioni per le quali ne siamo costretti. Non faremo neanche un minuto di formazione per cercare di capire come approfondirlo e tantomeno ai nostri collaboratori.

Il lavoro cattivo che arriva, sarà spartito al primo che passa nel corridoio e gestito ognuno come gli capita. Ci sarà un enorme scadenziere cartaceo che però non tutti aggiornano e, soprattutto, nessuno leggerà tempestivamente. Di modo che ognuno segnerà le sue scadenze sulla carta del formaggio e queste salteranno come le rane quando sentono la primavera. Faremo tutti prima le pratiche che ci piacciono e poi quelle per i clienti che ci stanno simpatici. Per ultime quelle difficili e con i clienti rognosi. Anzi ogni tanto metteremo qualche pratica a frollare, in modo che si avvicini alla scadenza in quanto è molto più adrenalinico e sfidante fare le cose in carenza di ossigeno. Cercheremo di non lasciare mai traccia di ciò che abbiamo fatto, in modo che sia impossibile per chi apre un fascicolo capire cos’è successo.

E chi più ne ha, più ne metta…

Per fortuna, oltre all’elenco dei nostri cattivi propositi, che con ogni probabilità si realizzeranno, possiamo formulare anche una lista alternativa, che è quella dei buoni spropositi. I buoni spropositi sono l’antitesi dei cattivi propositi. Sono quelle piccole trasgressioni che ci aiutano a sopravvivere. Come dicevano i latini semel in anno licet insanire. Una volta l’anno si può anche impazzire. Aiuta il morale, ogni tanto, fare qualche follia buona come mandare via in malo modo il cliente che cronicamente non paga, non collabora e non ascolta. Prendere letteralmente a pedate il nostro collaboratore che ha messo l’ultimo neurone residuo in ferie facendo una cappella degna di Michelangelo. Sputare in un occhio al pubblico funzionario palesemente inefficiente e corrotto, che ci ostacola senza motivo. Uscire di studio dicendo di andare alla Camera di Commercio a discutere di un codice ATECO, per non farvi mai più ritorno… Torno subito… Vado solo un secondo in CCIAA. Bye Bye…Buon anno a tutti!