28 Aprile 2023

L’annullamento delle opzioni di cessione e sconto e la tutela in giudizio

di Silvio Rivetti
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La scheda di FISCOPRATICO

Le prime prese di posizione della giustizia tributaria nei contenziosi concernenti i provvedimenti di annullamento delle opzioni di cessione del credito e sconto in fattura ex articolo 121 D.L. 34/2020 – tra cui la sentenza di CGT di I grado di Trieste 11.04.2023 n. 81/1/2023 – richiedono, al di là del loro contenuto di merito, alcune riflessioni di carattere procedurale e di sistema.

Al riguardo, si noti che gli innovativi controlli preventivi ex articolo 122-bis D.L. 34/2020 – per i quali l’Agenzia delle Entrate può sospendere le comunicazioni di opzione nei 5 giorni dall’invio, in presenza di profili di rischio frode e annullare tali comunicazioni considerandole “non effettuate” se, all’esito degli approfondimenti istruttori nei 30 giorni, la sussistenza dei profili di rischio sia confermata – sembrano caratterizzarsi per non dare origine a provvedimenti “impositivi”, non recuperandosi a tassazione le detrazioni spettanti ai contribuenti (dovendosi invece procedere a questo fine sempre attraverso i controlli ordinari, sostanziali o formali).

La possibile carenza di contenuto “impositivo” degli atti di annullamento delle opzioni (impedenti la conversione delle detrazioni in crediti d’imposta), rende legittimo il dubbio se essi possano dirsi atti direttamente impugnabili.

Inoltre tali atti – di evidente natura cautelare sommaria pro Fisco – non sono neppure corredati di motivazione (non potendosi dire tale il loro generico richiamo alla comparazione dei dati comunicati con quelli a disposizione nell’anagrafe tributaria): rendendosi con ciò necessaria una sorta di innaturale “contestazione al buio”.

E tuttavia non può negarsi che detti provvedimenti abbiano un impatto negativo sulle posizioni dei contribuenti; e che la loro motivazione non sia allineata agli obblighi motivazionali dei provvedimenti amministrativi ai sensi degli articoli 3 L. 241/1990 e 7 L. 212/2000, a tutela del diritto alla difesa costituzionalmente garantito dei loro destinatari, ex articolo 24 Costituzione.

In questo quadro, può ritenersi corretta la scelta di presentare un’istanza di autotutela, per ottenere un provvedimento espresso di diniego di autotutela motivato, o un silenzio rifiuto: e quindi atti eventualmente impugnabili.

Nondimeno, neppure tale soluzione sembra andare esente da criticità: a cominciare dalla corretta individuazione dei soggetti legittimati a presentare le istanze di autotutela in questione.

Invero, se oggetto dell’annullamento è la comunicazione di opzione, allora la richiesta di autotutela di tale annullamento dovrebbe spettare ai contribuenti che l’opzione hanno esercitato; e dunque, in caso di lavori condominiali, a tutti i condomini.

In tema, è bene interrogarsi se occorra l’iniziativa congiunta da parte di tutti questi; oppure anche solo di uno di essi, immaginando i condòmini coinvolti “solidalmente” e unitariamente nell’esercizio dell’opzione di cessione di tutte le loro posizioni fiscali: per cui l’autotutela richiesta da uno solo, se concessa, di fatto giova a tutti quanti.

Il tema si pone, evidentemente, a fronte della difficoltà di gestire la “raccolta firme” dei condòmini negli stabili di grandi dimensioni.

La medesima problematica si trasla in sede processuale, quanto al tema dei soggetti legittimati al ricorso contro il diniego di autotutela: se tutti i condòmini necessariamente, o anche solo uno di essi, trascinandosi le posizioni di tutti gli altri “in solido” (eventualmente richiedendosi l’integrazione del litisconsorzio ex articolo 14, comma 1, D.Lgs. 546/1992).

Quanto, tuttavia, all’impugnazione del diniego di autotutela, non può non rilevarsene il limite, come sancito da costante giurisprudenza, per cui il relativo annullamento può essere richiesto solo per “ragioni di rilevante interesse generale dell’amministrazione finanziaria alla rimozione dell’atto” (cfr. Corte di Cassazione, n. 24033/2019): e non per vizi specifici del diniego di autotutela in relazione al caso concreto, come qui di fatto accadrebbe.

Ferma quindi la praticabilità del percorso sopra esposto, nondimeno i limiti e le criticità evidenziati possono spingere a ricercare più efficaci forme di tutela dei contribuenti.

In tema, poiché può dirsi che il provvedimento di annullamento dell’opzione coincide, di fatto, con un “diniego dell’opzione” da parte del Fisco (il quale, con potere d’imperio, nega sul piano fiscale “l’efficacia” nei suoi confronti dei patti di cessione dei privati sul piano civilistico), può allora ipotizzarsi che soggetto “leso” da tale atto non sia soltanto il contribuente che l’opzione fiscale ha esercitato; ma anche indirettamente il fornitore o il cessionario che detta opzione era intenzionato ad accettare, risultando privato (da tale annullamento) dei crediti fiscali già acquistati e con cui avrebbe compensato i propri carichi tributari.

Di fatto, il diniego di opzione sembra assumere le forme di un recupero “indiretto”, a carico dei fornitori e cessionari, delle imposte che essi avrebbero eliso mediante detti crediti: e se così è, ciò apre a detti soggetti, titolari di un interesse ad agire in giudizio ai sensi dell’articolo 100 c.p.c., perlomeno la possibilità d’intervenire nei giudizi radicati dai contribuenti, ai sensi dell’articolo 14, comma 3, D.Lgs. 546/1992 (se non addirittura d’impugnare direttamente i dinieghi di opzione, quali atti di fatto “impositivi”), eccependo l’originario vizio di motivazione degli atti per carente esplicazione delle ragioni di fatto e di diritto a fondamento delle decisioni dell’amministrazione.