4 Giugno 2024

La ricapitalizzazione da parte del socio al vaglio della Cassazione

di Stefano Chirichigno
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La scheda di FISCOPRATICO

Quando ci si confronta con l’imposta di registro occorre sempre avere rispetto ed un po’ di comprensione. In primo luogo, perché è la decana delle imposte, dato che non è azzardato farla risalire al Regio Decreto n. 3269 (che data 30.12.1923) e, in secondo luogo, perché è un’imposta indiretta e non ha il sostegno dell’incredibile supporto filosofico dell’Iva o anche (in effetti in misura già assai minore) di un’imposta di successione.

Fatta questa premessa, è ragionevole non di meno manifestare un certo disorientamento per effetto della lettura della sentenza della quinta sezione Civile della Cassazione n. 4754 pubblicata lo scorso 22.2.2024. Beninteso, la sentenza è estremamente articolata e ricca di riferimenti giurisprudenziali a supporto, ma il tema che ci interessa, in particolare, è l’ascrivibilità della rinuncia al finanziamento – finalizzato ad evitare i provvedimenti di carattere straordinario di cui agli articoli 2446 e 2447 cod. civ.– all’alveo degli atti di remissione dei debiti, ovvero si debba considerarlo atto indirizzato  a consentire l’aumento di capitale e, in quanto tale, atto proprio della società a suo tempo finanziata e ora (ri)capitalizzata. La rilevanza della qualificazione attiene alla previsione dell’articolo 4, della Tariffa Parte I, allegata al D.P.R. 131/1986, che assoggetta a tassa fissa, per l’appunto, gli atti propri della società di qualunque tipo ed oggetto e degli enti diversi dalle società compresi i consorzi, le associazioni e le altre organizzazioni di persone o di beni, con o senza personalità giuridica, aventi per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali o agricole, nell’ambito dei quali, per tabulas, l’aumento del (capitale o) patrimonio con conferimento di denaro.

Come detto, su tale controversa questione è intervenuta la Cassazione che, in primo luogo, ha affermato che l’articolo 4 della Tariffa Parte I, allegata al D.P.R. 131/1986, individua quale presupposto della tassazione «le operazioni e gli atti delle società» e non dei soci, atteso che detta citata norma fa riferimento alla lett. a), n.5), all’aumento del capitale sociale mediante conferimento di denaro da parte dei soci, vale a dire alla delibera assembleare di aumento del capitale disposto anche con conferimento di denaro.

La stessa giurisprudenza di legittimità, sottolinea sempre la Cassazione in tema di imposte e tasse, utilizza il termine “atti societari”, quale genus rispetto alla species “deliberazioni societarie”.

Effettivamente non è raro che la dottrina utilizzi il termine atti societari in forma sintetica per ricondurre ad unità tutta una serie di eventi riconducibili alla società, talora ricollegandolo ad una delibera, o comunque ad un’expressio voluntatis dell’organismo, talora ponendo quale unico criterio unificatore il riferimento ad una struttura societaria (si veda anche Cassazione n. 3345/2011; Cassazione n. 15625/2014).

Ne consegue che l’atto di rinuncia al finanziamento sottoscritto dal socio – sebbene al fine di evitare la riduzione di capitale e conseguente futuro aumento di capitale – non rientrerebbe, secondo la Suprema Corte di cassazione, nell’alveo degli atti societari che sono costituiti dai soli atti che siano espressione della volontà assembleare.

Non si può negare che il ragionamento appare compiutamente e organicamente sviluppato, ma resta da chiarire perché la norma (articolo 4, alla lett. a) n. 5 della Tariffa Parte I) testualmente faccia riferimento alla “costituzione e aumento del capitale o patrimonio”. La sentenza sembra considerare atto societario l’aumento di capitale inteso come delibera di aumento del capitale sociale, ma se il legislatore ha affiancato all’aumento di capitale, anche l’aumento di patrimonio, una qualche ragione dovrà pur esserci. Ci troviamo, dunque, di fronte ad una duplice delimitazione, la prima relativa all’ oggetto dell’apporto modalità (conferimento di denaro e, quindi, si deve inferire, non rinuncia ai crediti) e la seconda relativa alla forma (delibera assembleare e non diversa formalizzazione della medesima volontà della medesima compagine sociale). Orbene, la prima delimitazione può essere considerata un mero retaggio che induce ad avere per così dire l’accortezza di raggiungere il medesimo risultato di ricapitalizzazione trasformando credito in capitale indirettamente, attraverso l’apporto di “cash” che consenta di rimborsare per pari importo il credito. Sotto tale profilo, il rispetto per la veneranda imposta, cui si accennava in premessa, rende accettabile quello che potrebbe apparire se non un vero e proprio bizantinismo, quantomeno l’imposizione di un rituale di cui pochi sentivano il bisogno.

Quanto alla seconda delimitazione, rimane irrisolto il significato da attribuire all’aumento del patrimonio affianco all’aumento del capitale. Se per capitale, come detto, si intende il capitale sociale per il quale la delibera costituisce strumento indefettibile di ogni intervento di ricostituzione, per il patrimonio, la sede assembleare al più è il momento di ratifica di una scelta e manifestazione di volontà che solo accidentalmente si manifesti in tale sede.

L’aspetto che più lascia sconcertati e che, pur valorizzando la natura di atto di rinuncia al credito e, quindi, l’applicabilità al caso in esame dell’imposta proporzionale di registro pari allo 0,50% , di cui all’ articolo 6 della citata Tariffa parte I, relativa a cessione di crediti, compensazioni e remissioni di debiti, quasi si sorvoli sulla circostanza che, per questa tipologia di atti, la Tariffa parte II, come noto, prevede la tassazione solo in caso d’uso se formati mediante corrispondenza (con talune eccezioni che qui non sono di interesse). Si intuisce, più ripercorrendo l’iter giurisprudenziale a monte, che dalla sentenza stessa che si sarebbe concretizzato un caso d’uso derivante dalla “produzione” della “corrispondenza” in questione nel corso di una verifica dell’Agenzia delle entrate.

Uno scenario da caccia al fuggitivo. Immaginiamo anche un finanziamento originario intercompany fruttifero che goda pacificamente del principio di alternatività dell’Iva rispetto all’imposta di registro; la capitalizzazione – che a ben vedere anche se presa in sede assembleare, anche se per aumentare il capitale sociale in senso proprio, resta sempre manifestazione di una volontà ascrivibile esclusivamente al socio e non all’organo della beneficiaria di tale atto unilaterale –  è libera da ogni incubo di enunciazione di tale finanziamento,  ma viene inseguita per essere tassata con imposta proporzionale se non riesce a rifugiarsi in un verbale di assemblea e con rituale movimentazione di denaro, perché la necessità di produrre l’atto unilaterale in sede di verifica è sempre dietro l’angolo. L’esatto contrario di quello che gli operatori (e il buon senso) hanno suggerito sino ad ora.