7 Aprile 2017

Gli aspetti fiscali dell’esercizio provvisorio nel fallimento

di Andrea Rossi
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In un precedente contributo, abbiamo approfondito i compiti che deve svolgere il curatore fallimentare laddove sia attivato l’esercizio provvisorio con la specifica finalità di valorizzare l’impresa in stato di insolvenza, al fine di promuoverne il trasferimento ad altro imprenditore mediante la negoziazione di un affitto ovvero la cessione dell’azienda stessa. A tal proposito si ricorda che l’esercizio provvisorio può essere disposto dal giudice delegato dopo la sentenza dichiarativa di fallimento, nella fase che precede il deposito del piano di liquidazione dell’attivo ovvero può essere autorizzato dal Tribunale anche in sede di emissione della sentenza dichiarativa di fallimento, laddove la cessazione dell’attività possa comportare un grave danno e sempre che tale prosecuzione dell’attività non determini un pregiudizio per i creditori.

L’autorizzazione dell’esercizio provvisorio da parte del Tribunale, non muta il quadro normativo dei compiti del curatore in ambito fiscale. Sarà pertanto compito di quest’ultimo comunicare al competente ufficio dell’Agenzia delle Entrate, entro il termine di 30 giorni, l’intervenuta autorizzazione all’esercizio provvisorio, per giustificare i debiti ed i crediti Iva maturati in tale fase del fallimento, non ascrivibili alla mera fase liquidatoria.

In costanza dell’esercizio provvisorio e nel fallimento in generale, ci si chiede se il verificarsi dei presupposti impositivi crei il medesimo effetto che si avrebbe nell’ambito della gestione ordinaria di impresa. Il punto è sicuramente complesso e deve essere approfondito per singole imposte.

Nei casi di fallimento e di liquidazione coatta amministrativa, il reddito ai fini Ires o Irpef dell’impresa relativo al periodo compreso tra l’inizio e la chiusura della procedura, quale che sia la durata di questo ed anche se vi è stato esercizio provvisorio, è costituito dalla differenza tra il residuo attivo e il patrimonio netto dell’impresa o della società all’inizio del procedimento, determinato in base ai valori fiscalmente riconosciuti. Il patrimonio netto dell’impresa o della società all’inizio del procedimento concorsuale è determinato mediante il confronto (secondo i valori riconosciuti ai fini delle imposte sui redditi) tra le attività e le passività risultanti dal bilancio, redatto e allegato alla dichiarazione iniziale del curatore.

Nel fallimento il presupposto affinché possa esserci un reddito imponibile è la presenza di un residuo attivo dopo aver effettuato il riparto finale. Poiché il legislatore non offre alcuna definizione del concetto di “residuo attivo”, si ritiene che lo stesso debba essere inteso come le disponibilità liquide che residuano dopo aver soddisfatto tutti i creditori concorsuali oltre che le spese di procedura; si tratta di un’ipotesi scolastica, in quanto presuppone che il fallimento sia in grado di pagare integralmente i propri creditori e, conseguentemente, sia dipeso da uno stato di difficoltà finanziaria e non da un effettivo deficit patrimoniale. Di conseguenza, è possibile affermare che nel caso non vi sia un residuo attivo non vi sarà nemmeno materia imponibile ai fini Ires o Irpef.

Situazione differente riguarda invece l’assoggettabilità all’Irap delle società in fallimento, infatti, il presupposto per l’applicazione dell’imposta, ai sensi del comma 1 dell’articolo 3 D.Lgs. 446/1997 è l’esercizio abituale di un’attività diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi. Il fallimento non figura pertanto nell’elenco dei soggetti passivi del tributo in esame, ma nemmeno risulta fra i soggetti esonerati di cui al 2° comma del medesimo articolo.

Conseguentemente il fallimento è sicuramente attratto all’obbligo impositivo Irap solamente laddove sia attivato l’esercizio provvisorio e, sulla base degli articoli 5, D.P.R. 322/1998 e 19, comma 6, D.Lgs. 446/1997, il curatore dovrà presentare, in pendenza di procedura, le dichiarazioni annuali successive a quella iniziale (ossia a quella intercorrente tra l’inizio del periodo d’imposta e la data di dichiarazione del fallimento). È possibile affermare che limitatamente alla sola imposta Irap non si avrà quindi un unico “maxi-periodo d’imposta come previsto per l’Irpef o Ires sul reddito della procedura, ma periodi di imposta infrannuali o annuali in funzione della durata dell’esercizio provvisorio.

Nell’ambito dell’esercizio provvisorio, la base imponibile Irap è quantificata sul valore della produzione realizzato in tale periodo, con esclusione dei proventi conseguiti nell’ambito dell’attività liquidatoria tipica delle procedure fallimentari (per esempio la vendita di un cespite. L’eventuale imposta costituisce un debito prededucibile da pagarsi per ogni singolo esercizio, con la conseguenza che, secondo dottrina prevalente, sono dovuti anche gli acconti laddove l’esercizio provvisorio si protrae per due esercizi consecutivi.

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