5 Novembre 2025

L’autoriciclaggio “silenzioso”: tra apparenza di liceità e rischio penale

di Gianrocco RossettiMaria Erika De Luca
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Non è possibile “ripulire” denaro di provenienza illecita semplicemente facendolo transitare nel circuito bancario. Questo è il principio cardine affermato dalla sentenza n. 25348/2025, pronunciata dalla Seconda Sezione penale della Corte di Cassazione. La Suprema Corte ha infatti precisato che anche le operazioni formalmente tracciabili, come il deposito su conto corrente o il trasferimento tra conti intestati allo stesso soggetto, possono integrare il reato di autoriciclaggio, qualora siano idonee, anche solo in parte, a ostacolare l’accertamento della provenienza illecita delle somme movimentate. Secondo gli Ermellini, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 648-ter.1, c.p., non è necessario che la condotta dell’agente impedisca in modo assoluto l’identificazione della provenienza delittuosa dei beni. È, invece, sufficiente che si tratti di un’attività concretamente idonea, valutata secondo un criterio ex ante, a ostacolare anche parzialmente gli accertamenti in merito all’origine del denaro, beni o altre utilità, anche qualora tali operazioni siano interamente tracciabili sul piano formale. Con questa pronuncia, la Corte di legittimità ribadisce e rafforza un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, secondo cui la tracciabilità delle operazioni non esclude, di per sé, la configurabilità del reato di autoriciclaggio. Al contrario, anche operazioni apparentemente neutre possono assumere rilievo penale se inserite in un disegno dissimulatorio, volto a reinserire capitali illeciti nel circuito dell’economia legale. In tal modo, la decisione contribuisce a precisare la portata applicativa dell’autoriciclaggio, rafforzando gli strumenti a disposizione dell’ordinamento per il contrasto all’evasione fiscale e alla criminalità economico-finanziaria, anche nei suoi schemi più sofisticati e formalmente trasparenti.

Il caso

Nel caso di specie, l’imputato era stato condannato in I e II grado per il reato di autoriciclaggio (art. 648-ter.1, c.p.), per aver trasferito somme di denaro di provenienza illecita, derivate da un’appropriazione indebita, da conti correnti personali a un conto deposito titoli, anch’esso a lui intestato. La Corte d’Appello di Catanzaro aveva confermato la responsabilità penale dell’imputato, condannandolo alla pena di 3 anni di reclusione e 7.000 euro di multa.

Avverso tale decisione, l’imputato proponeva ricorso per Cassazione articolando più motivi di impugnazione. In primo luogo, lamentava la mancanza della querela quale condizione di procedibilità per il reato presupposto di appropriazione indebita. In secondo luogo, deduceva la carenza e la manifesta illogicità della motivazione in ordine alla sussistenza degli elementi costitutivi dell’autoriciclaggio. La difesa, in particolare, sosteneva che le operazioni contestate, effettuate tra conti formalmente intestati allo stesso soggetto, fossero integralmente tracciabili, non comportassero alcun mutamento nella titolarità delle somme e non realizzassero alcuna effettiva dissimulazione della loro provenienza delittuosa. Di conseguenza, secondo la prospettazione difensiva, non vi sarebbe stato alcun concreto ostacolo all’identificazione dell’origine illecita del denaro, elemento imprescindibile per l’integrazione della fattispecie di reato.

Un ulteriore motivo di ricorso riguardava la qualificazione delle operazioni come speculative: la difesa contestava che il semplice versamento delle somme su un conto titoli potesse essere qualificato come attività di investimento rischiosa, sottolineando come la condotta fosse in realtà finalizzata al mero godimento personale del denaro, ipotesi che escluderebbe la sussistenza dell’elemento soggettivo richiesto dalla norma incriminatrice. Sul punto, il ricorrente lamentava un travisamento della prova, nonché una motivazione illogica da parte dei giudici di merito, che avevano escluso tale finalità personale senza adeguato supporto argomentativo.

Infine, il ricorrente contestava il mancato riconoscimento sia della circostanza attenuante del fatto di particolare tenuità, prevista dal comma 4 dell’art. 648-ter.1, c.p., sia delle circostanze attenuanti generiche di cui all’art. 62-bis, c.p..

La Suprema Corte è stata dunque chiamata a pronunciarsi sulla corretta applicazione della fattispecie di autoriciclaggio nei casi in cui il soggetto agente abbia collocato denaro proveniente da un reato presupposto su conti propri, attraverso operazioni formalmente lecite e interamente tracciabili.

Il reato di autoriciclaggio alla luce delle riflessioni giurisprudenziali

La risoluzione della controversia sottoposta al Supremo Consesso prende le mosse dall’analisi del concetto di reato di autoriciclaggio. I giudici di legittimità hanno, innanzitutto, sottolineato come la fattispecie di cui all’art. 648-ter.1, c.p., rappresenti un delitto a forma libera, che può essere concretamente realizzato attraverso qualsiasi condotta caratterizzata da un effetto dissimulatorio, finalizzato a ostacolare l’accertamento o, comunque, l’individuabilità dell’origine illecita delle utilità da occultare. A partire da tale fondamento, la Corte ha sviluppato uno degli aspetti principali della sua pronuncia, evidenziando come, richiamando una propria giurisprudenza precedente, non sia necessario che la condotta ponga in essere un impedimento assoluto all’identificazione dell’origine delittuosa delle utilità, ma che sia sufficiente che essa possa, anche solo potenzialmente, ostacolare, seppur parzialmente, gli accertamenti su tale origine.

In particolare, i giudici della Corte hanno ribadito che ai fini dell’integrazione del reato di autoriciclaggio, non è indispensabile che l’agente compia un atto di impiego, sostituzione o trasferimento del denaro, dei beni o di altre utilità che impedisca completamente di risalire alla loro provenienza illecita. È sufficiente, infatti, che la condotta, anche se non totale, risulti idonea a ostacolare gli accertamenti relativi alla provenienza delittuosa, anche attraverso operazioni o flussi finanziari che siano comunque tracciabili.

In questa prospettiva, il campo di applicazione del reato di autoriciclaggio si estende notevolmente, poiché la valutazione dell’illecito non dipende più dal risultato concreto, ma dall’idoneità astratta della condotta e dal disegno criminoso perseguito. Questa interpretazione amplia in modo significativo l’ambito di applicazione della norma, separando la rilevanza penale dal risultato effettivo e collegandola invece alla capacità della condotta di ostacolare, almeno in astratto, l’individuazione dell’origine illecita.

In questo contesto interpretativo si inserisce un altro importante principio affermato dalla Corte: le operazioni bancarie, anche se formalmente neutre e tracciabili, possono costituire strumenti di autoriciclaggio.

Premesso che nel contesto delle operazioni bancarie, il deposito di somme di denaro di provenienza illecita presso istituti di credito ha assunto un ruolo centrale nell’elaborazione giurisprudenziale in materia di autoriciclaggio e riciclaggio, la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di chiarire che anche simile condotta può integrare, di per sé, un comportamento idoneo a ostacolare l’identificazione dell’origine delittuosa del denaro, anche in assenza di operazioni complesse o dissimulanti. La Cassazione è giunta a tale approdo interpretativo basandosi essenzialmente sulla natura fungibile del denaro. Come è noto, infatti, il denaro non conserva individualità per cui una volta depositato viene confuso con le disponibilità liquide dell’istituto bancario, generando un’obbligazione restitutoria in capo alla banca nei confronti del depositante. Ne deriva che, al momento del prelievo, ciò che viene restituito al cliente non è lo stesso denaro fisico originariamente versato, bensì una somma equivalente per valore ma diversa in termini materiali.

Tale conclusione, così come affermato dalla stessa Corte in sentenza, è in linea con una interpretazione giurisprudenziale ormai granitica nell’affermare che il deposito bancario di denaro proveniente da attività delittuosa costituisce operazione idonea a ostacolare l’accertamento della provenienza delittuosa del bene, proprio perché, per effetto della natura fungibile del denaro, il bene originario viene “sostituito” da una nuova disponibilità finanziaria che appare formalmente legittima (Cass. pen., Sez. II, n. 52549/2017).

Del resto, è lo stesso dato normativo che impone di valutare l’idoneità oggettiva e concreta della condotta a ostacolare l’accertamento dell’origine delittuosa del bene, senza richiedere la produzione di un effetto necessariamente irreversibile o di una sofisticata operazione di dissimulazione.

In tal senso, il trasferimento bancario, pur nella sua apparente neutralità formale, realizza un meccanismo di “ripulitura” del denaro analogo a quello del deposito, in quanto spezza il legame tracciabile tra il bene originario e la sua provenienza.

Alla luce delle richiamate pronunce dalle quali si evince un consolidato orientamento della Corte di Cassazione, il deposito bancario e il trasferimento interbancario di denaro di provenienza illecita devono essere considerati condotte tipicamente idonee a ostacolare l’accertamento dell’origine delittuosa del bene, rilevanti ai fini dell’integrazione del delitto di cui all’art. 648-ter.1, c.p.. Tale impostazione, ancorata alla natura fungibile del denaro e per cui ogni passaggio nel circuito finanziario legale assume, potenzialmente, un ruolo “pulente”, segna un’importante evoluzione verso una maggiore efficacia repressiva nei confronti delle condotte di riciclaggio e autoriciclaggio, anche quando esse si manifestino in forme apparentemente neutre o “ordinarie” sotto il profilo bancario. Il potenziamento della efficacia repressiva dell’autoriciclaggio, del resto, risponde all’originaria esigenza di politica criminale che ha indotto lo stesso Legislatore a introdurre l’art. 648-ter.1, c.p., nel nostro ordinamento. Con tale disposizione si intendeva evitare che il soggetto agente potesse liberamente reinvestire, reinserire o reimpiegare i proventi illeciti nel circuito economico legale, eludendo ogni forma di controllo, dissimulando l’origine delittuosa del bene, e aggravando così l’offensività della condotta iniziale. La norma, infatti, persegue l’obiettivo di inibire il consolidamento del profitto delittuoso e di interrompere il circuito vizioso tra reato e arricchimento illecito, evitando che il soggetto, dopo aver tratto vantaggio da un delitto, possa “ripulire” il profitto attraverso operazioni apparentemente lecite. Alla stessa logica risponde, altresì, la scelta di far rientrare tra le operazioni rilevanti ai fini dell’art. 648-ter.1, c.p., anche i trasferimenti di fondi tra conti accesi presso diversi istituti bancari. In più occasioni, infatti, i giudici di legittimità hanno sancito che anche il mero trasferimento di fondi da un conto corrente bancario presso un istituto di credito a un altro, costituisce una condotta idonea a ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa delle somme (Cass. pen., Sez. II, n. 10939/2024).

Altro importante passaggio interpretativo è quello in cui la Corte precisa un ulteriore principio per cui la condotta successiva al reato presupposto non deve configurarsi come un semplice godimento personale, bensì come un’operazione autonoma e punibile, se diretta a dissimulare, reinvestire o reimpiegare il profitto illecito.

Tale distinzione assume un valore dirimente nella concreta delimitazione del perimetro applicativo della fattispecie incriminatrice. Il Legislatore, infatti, ha espressamente escluso la punibilità delle condotte meramente conservative o di fruizione personale, purché sprovviste di ogni attitudine dissimulatoria o reinvestitiva.

Ne deriva che il discrimine tra condotta penalmente irrilevante e fattispecie punibile risiede nella potenzialità ostacolatrice della tracciabilità del bene, valutata secondo un criterio ex ante. La valutazione richiesta al giudice non è fondata sull’esito effettivo dell’operazione ma basata sulle circostanze oggettive del caso concreto, tenendo conto della struttura, della natura e delle modalità dell’atto posto in essere.

In tale prospettiva, non assume rilievo il fatto che l’operazione è stata successivamente individuata grazie a strumenti di tracciabilità bancaria o all’efficienza degli accertamenti investigativi. L’idoneità della condotta a integrare il reato di autoriciclaggio deve essere valutata al momento della sua realizzazione, e non può essere esclusa ex post sulla base dell’esito degli accertamenti. Anche questa impostazione ermeneutica, oltre a garantire una maggiore efficacia preventiva, risulta coerente con la già citata ratio politico-criminale sottesa alla fattispecie di cui all’art. 648-ter.1, c.p., volta a reprimere non soltanto l’occultamento, ma anche il più ampio fenomeno della reimmissione del profitto illecito nel circuito economico-legale, con conseguente rischio di consolidamento del vantaggio derivante dal reato presupposto. Il reinserimento del bene nel sistema economico-finanziario assume, infatti, una funzione trasformativa, attribuendo al profitto illecito una nuova veste giuridica e funzionale, sebbene permanga il nesso di derivazione causale con l’illecito originario. È proprio questa capacità di alterare l’identità del bene, conferendogli una parvenza di legittimità, che fonda la pericolosità della condotta e ne giustifica la rilevanza penale.

La decisione

Alla luce delle osservazioni sopra esposte, la Corte di Cassazione ha ritenuto che le decisioni di merito avessero adeguatamente motivato l’affermazione di responsabilità dell’imputato per il reato di autoriciclaggio, confermando la sussistenza degli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 648-ter.1, c.p.. Nei precedenti gradi di giudizio, infatti, era stato ampiamente dimostrato che l’imputato aveva reinvestito i proventi dell’appropriazione indebita in investimenti mobiliari, attività che, secondo i giudici di legittimità, rientrava pienamente nelle fattispecie previste dalla norma. Nel dettaglio, la Corte ha osservato che le condotte contestate all’imputato configurano un insieme di operazioni finanziarie sistematicamente orientate a dissimulare l’origine illecita del denaro. Tali azioni sono state, infatti, caratterizzate dalla volontà di reinserire il denaro di provenienza delittuosa nel circuito economico-finanziario, con l’obiettivo di ottenere un effetto dissimulatorio, che si distingue chiaramente dalla mera condotta di godimento personale, non punibile. In particolare, i giudici di legittimità hanno sottolineato che la molteplicità e la complessità delle operazioni poste in essere, tutte finalizzate a rendere sempre più “sfuggente” la tracciabilità del denaro, dimostrano l’intenzione dell’imputato di nascondere l’origine delittuosa del profitto illecito. Di conseguenza, la Corte ha ritenuto che le operazioni bancarie e finanziarie in questione, pur non risultando intrinsecamente illecite in quanto formalmente tracciabili, abbiano avuto un effetto dissimulatorio tale da configurare la fattispecie di autoriciclaggio, come definita dall’art. 648-ter.1, c.p.. La motivazione della Corte, quindi, ha ribadito l’orientamento consolidato secondo cui il reimpiego di denaro illecito in attività apparentemente lecite, come gli investimenti finanziari o immobiliari, è sufficientemente idoneo a ostacolare l’accertamento dell’origine delittuosa del bene, costituendo, così, un comportamento penalmente rilevante. In conclusione, la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso dell’imputato, confermando la sussistenza del reato di autoriciclaggio e ribadendo la necessità di un’interpretazione ampia e rigorosa della normativa volta a contrastare la reimmissione dei profitti illeciti nel circuito economico-finanziario.

Conclusioni

La sentenza n. 25348/2025, si inserisce con coerenza e rigore all’interno di un orientamento ormai consolidato della giurisprudenza di legittimità, che interpreta l’art. 648-ter.1, c.p., come strumento di contrasto non solo alle forme tradizionali di riciclaggio, ma anche a quelle più insidiose perché formalmente trasparenti, realizzate attraverso strumenti e operazioni del tutto leciti nella prassi bancaria ed economico-finanziaria. Il principio affermato dalla Corte è chiaro e di ampia portata sistematica: la tracciabilità formale dell’operazione non esclude, ma anzi può confermare, la sussistenza del reato di autoriciclaggio, ove l’impiego del denaro illecito sia idoneo, anche solo in via potenziale, a ostacolare l’accertamento della sua provenienza delittuosa. A rilevare, quindi, non è tanto l’anonimato dell’operazione, quanto la sua funzione economico-giuridica di “trasformazione” del profitto illecito in una risorsa apparentemente legittima, reimmessa nel circuito finanziario sotto una veste dissimulata. Ne deriva che anche condotte minimali, come il versamento su conto corrente o il trasferimento su un conto titoli, se orientate a “ripulire” la provvista, devono essere attentamente valutate nella loro capacità dissimulatoria, non in senso assoluto, ma in relazione al contesto, alla sequenza delle operazioni, alla finalità perseguita e all’idoneità ex ante a frapporre ostacoli alle attività investigative. Questa impostazione rafforza l’efficacia repressiva della norma, evitando che operazioni bancarie apparentemente neutrali divengano strumenti sistematici di legittimazione dei proventi illeciti. Allo stesso tempo, essa impone a tutti gli operatori del diritto una particolare attenzione all’analisi concreta del “disegno criminoso”, che può emergere anche in assenza di interposizioni fittizie, schermi societari o movimenti internazionali, ma che si manifesta nella logica speculativa e nella sequenza funzionale delle operazioni compiute.

La decisione della Corte di Cassazione in commento, però, non si limita a offrire spunti di rilievo sul piano interpretativo, ma impone un elevato standard di attenzione e consapevolezza nell’attività professionale, sia in ambito difensivo che consulenziale, ponendo l’accento non solo sulla legittimità formale degli atti, ma anche sulla loro funzione economico-criminale sostanziale.

Da ciò derivano alcune raccomandazioni fondamentali.

Tracciabilità formale non esclude la rilevanza penale

È essenziale evitare l’erroneo convincimento secondo cui la tracciabilità delle operazioni bancarie o finanziarie sia di per sé sufficiente a escludere la configurabilità dell’autoriciclaggio. La giurisprudenza di legittimità, come confermato nella sentenza in esame, ha chiarito che la tracciabilità non neutralizza la condotta, qualora quest’ultima sia comunque idonea, anche solo potenzialmente, a ostacolare l’identificazione dell’origine delittuosa del bene. L’attenzione deve dunque concentrarsi sulla funzione economico-giuridica dell’operazione, e non soltanto sulla sua apparenza formale.

Analisi del contesto operativo complessivo

In sede difensiva, è fondamentale adottare un approccio sostanzialistico e contestuale. Non basta esaminare isolatamente l’atto contestato: occorre invece valutare l’intera sequenza delle operazioni, il loro inquadramento temporale e funzionale, il contesto economico-finanziario di riferimento e, soprattutto, l’elemento soggettivo che le ha ispirate. Solo un’analisi sistemica permette di contrastare efficacemente l’accusa di autoriciclaggio e di dimostrare l’eventuale estraneità della condotta al paradigma normativo.

Prova della destinazione personale del profitto

Qualora si intenda invocare la causa di non punibilità prevista dal comma 4 dell’art. 648-ter.1, c.p., riferita al mero godimento personale del denaro illecito, sarà necessario fornire una prova rigorosa, documentale e logica, idonea a dimostrare l’assenza di finalità dissimulatorie. In particolare, sarà opportuno evidenziare che le somme sono state destinate in via diretta ed esclusiva a soddisfare bisogni individuali, senza passaggi attraverso operazioni di reinvestimento, trasformazione o movimentazione bancaria che possano anche solo astrattamente ostacolare l’identificazione della provenienza del bene.

Responsabilità professionale e consulenza tecnica

La decisione in esame richiama indirettamente anche la posizione dei professionisti (avvocati, commercialisti, consulenti fiscali e societari) coinvolti nella strutturazione di operazioni economicamente rilevanti. È opportuno ricordare che anche l’attività professionale formalmente lecita può assumere rilievo penale qualora il consulente contribuisca consapevolmente a un disegno dissimulatorio o reinvestitivo. La diligenza richiesta al professionista impone dunque un’attenta verifica della provenienza delle risorse oggetto di impiego, ristrutturazione o investimento, anche in assenza di un obbligo specifico di segnalazione. Una consulenza tecnica che agevoli, anche inconsapevolmente, il consolidamento del profitto illecito, può determinare implicazioni sul piano della responsabilità penale, civile o disciplinare.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “Accertamento e contenzioso”