18 Ottobre 2014

Cessione azienda: il pericolo degli accertamenti

di Comitato di redazione
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Con l’avvio delle
prime giornate del Master Breve, abbiamo avuto
occasione di confrontarci con i partecipanti in merito alla tematica delle
complicazioni “accertative” legate alla più basilare operazione straordinaria, vale a dire la
cessione d’azienda. Come noto, infatti, l’operazione che risulta attualmente utilizzata per il
trasferimento di piccole realtà produttive o commerciali, rischia di divenire un
boomerang per
l’alto tasso di controlli dell’Agenzia delle Entrate.
Abbiamo avuto modo di riscontrare, poi, che
quasi sempre insorge una contestazione in merito al
valore dell’avviamento dichiarato (ci riferiamo al comparto dell’imposta di registro), sia per effetto della applicazione delle risultanze matematiche, che dell’utilizzo di formule di matrice aziendalistica dai contorni altamente soggettivi.
Si tratta allora di comprendere quale sia la
corretta modalità di approccio per cercare di gestire saggiamente la probabilità che il
valore definito ai fini del registro venga
utilizzato per l’accertamento di una maggiore plusvalenza ai fini delle imposte dirette.
Che ciò
sia possibile è oramai un
dato di fatto, come risulta dalle numerose sentenze della Cassazione che si sono pronunciate in tal senso, tanto in relazione alla casistica della cessione di azienda, tanto per l’analoga situazione della cessione di aree fabbricabili (circostanza per la quale i problemi in analisi insorgono in modo del tutto identico).
Meno chiara era la “dimensione” del
legame esistente su eventuali
vicende contenziose degli accertamenti ai fini dell’imposta di registro con quelle relative alle imposte sui redditi.
Al riguardo,
la Cassazione, con la recente sentenza 21632 del 14 ottobre 2014, ha avuto modo di affermare che
deve recisamente escludersi che il giudice chiamato a verificare la legittimità dell’accertamento operato dall’amministrazione in tema di plusvalenza sulla base dei valori acclarati ai fini dell’imposta di registro per effetto del giudicato formatosi rispetto a tale tributo sia vincolato alle valutazioni ivi espresse. Per questo motivo, risulta errata l’espressione “giudicato interno” utilizzata dalla CTR che non si addice affatto ai rapporti che intercorrono fra accertamento in sede di registro e quantificazione della plusvalenza.
Emerge, insomma, che pur costituendo la determinazione del “valore” dell’azienda un possibile elemento (presunzione semplice) utile a corroborare la motivazione dell’accertamento ai fini delle imposte dirette,
tra i due ambiti impositivi non sussiste alcun rapporto di dipendenza incrociata.
Pertanto,
il giudice adito nel corso del contenzioso sulle dirette
potrebbe ben discostarsi da quanto deciso in ambito di imposta di registro. E, a ben pensarci, non si tratta di una conclusione così strana, se solo si osserva che medesimo rapporto di indipendenza sussiste nelle vicende accertative tra la definizione di un determinato valore ai fini del registro e quella relativa alla plusvalenza in capo al venditore, posto che quest’ultimo ha ampia possibilità di difesa adducendo qualsiasi circostanza che possa giustificare un corrispettivo inferiore all’ipotetico valore.
E la
conclusione si applica ad ampio raggio, inducendo gli stessi Giudici di Cassazione ad affermare che non vi sia spazio per ritenere esaurito, in capo al giudice di merito,
il potere di accertamento sulla consistenza degli elementi offerti dal contribuente per superare i valori utilizzati dall’amministrazione (in particolare, si lamentava che non si fosse tenuto in considerazione il fatto che oggetto della cessione fosse un ramo di azienda e non l’intero compendio, che vi fossero dei costi non ammortizzati e che fosse sussistente una impresa familiare, sia pure non dichiarata ed ufficializzata).
Tali elementi consentono, invece, la
formazione in capo al giudice del libero convincimento in merito al corretto valore della plusvalenza, mediante l’utilizzo della sua prudente discrezionalità; il peso attribuito agli stessi citati elementi, però, non può rientrare nella valutazione della Corte, che si pronuncia unicamente sulla correttezza dell’iter decisionale.
Ecco che allora, a distanza di
pochi mesi dalla pronuncia della CTR Lazio (sentenza 4147 del 20.06.2014) che aveva sancito la rilevanza del consolidarsi del ricorso favorevole al contribuente in merito alla quantificazione del valore ai fini del registro, appare possibile trarre alcune conclusioni:
  • se
    l’accertamento ai fini del registro (in capo all’acquirente) viene
    giudicato non fondato in sede contenziosa, il venditore potrà utilizzare tale circostanza a propria difesa, sostenendo la carenza di motivazione dell’accertamento sulla plusvalenza, in quanto l’atto indica come presunzione semplice fondante un maggior valore che, in giudizio, è risultato sconfessato;
  • se
    l’accertamento ai fini del registro (in capo all’acquirente) si
    conclude con una soccombenza in contenzioso, il venditore conserva la massima possibilità di difesa anche spendendo argomentazioni che siano state ritenute non meritevoli dalla Commissione Tributaria che si è pronunciata sull’accertamento del registro.