Prima casa a rischio sequestro penale in caso di reati tributari
di Angelo GinexL’art. 76, D.P.R. n. 602/1973, disciplina i limiti all’espropriazione immobiliare nell’ambito della riscossione coattiva delle imposte. Nello specifico, la norma stabilisce che l’agente della riscossione non può procedere all’espropriazione se l’unico immobile di proprietà del debitore – purché non si tratti di abitazione di lusso e sia adibito a uso abitativo con residenza anagrafica – è l’abitazione principale dello stesso. Si tratta, dunque, di una tutela mirata all’unico immobile, non alla “prima casa” in senso generico.
La ratio è quella di garantire un equilibrio tra la necessità di recupero del credito erariale e l’esigenza di tutela del diritto all’abitazione. Tuttavia, il limite opera soltanto nei confronti dell’agente della riscossione e non si estende ad altri creditori o a procedure diverse da quelle esecutive tributarie. Ciò trova conferma nel successivo comma b), che consente l’espropriazione per debiti superiori a 120.000 euro, dopo almeno sei mesi dall’iscrizione di ipoteca, evidenziando il carattere speciale e restrittivo della disposizione.
La questione della pignorabilità della “prima casa” è tornata di attualità a seguito della sent. n. 34484/2025 della Corte di cassazione, la quale ha affrontato il tema in relazione alla confisca penale del profitto del reato tributario. Il caso di specie riguardava un indagato per dichiarazione fraudolenta ai sensi dell’art. 2, D.Lgs. n. 74/2000, sul cui immobile – adibito ad abitazione principale e cointestato con il coniuge – era stato disposto un sequestro preventivo finalizzato alla confisca.
La difesa aveva eccepito l’illegittimità del sequestro, sostenendo che l’art. 76, D.P.R. n. 602/1973, nella parte in cui prevede il divieto di espropriazione dell’unico immobile, dovesse estendersi anche alla misura cautelare reale penale, a tutela del diritto all’abitazione familiare. La Cassazione, invece, ha rigettato il ricorso, riaffermando un principio ormai consolidato: «Il limite alla pignorabilità fissato dall’art. 76, comma 1, lett. a), del D.P.R. 602/1973 opera solo nei confronti dell’Erario per debiti tributari e non costituisce un ostacolo alla confisca penale, sia essa diretta o per equivalente, né al sequestro preventivo ad essa preordinato».
La Corte ha chiarito che la disposizione non stabilisce un principio generale di impignorabilità e che l’ambito di applicazione resta confinato alle espropriazioni tributarie promosse dall’agente della riscossione. Non rileva, dunque, che l’immobile sia qualificato come “prima casa”, poiché il Legislatore fa riferimento esclusivamente all’unico immobile di proprietà, concetto che implica una valutazione patrimoniale complessiva e non soggettiva.
Il principio trova ulteriore fondamento nell’art. 2740, c.c., secondo cui il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri, salvo i casi espressamente previsti dalla Legge. Poiché nel caso della confisca penale non sussiste una norma che limiti la responsabilità patrimoniale, il vincolo può estendersi a qualsiasi bene del condannato, inclusa l’abitazione principale.
La Corte ha ribadito un orientamento già espresso in precedenti decisioni (Cass. n. 8995/2019; Cass. n. 5608/2020; Cass. n. 30342/2021; Cass. n. 11087/2022), secondo cui la confisca penale ha una finalità diversa rispetto all’espropriazione forzata: non mira a soddisfare un credito, ma a sottrarre al reo il profitto del reato, realizzando un effetto sanzionatorio e preventivo.
Né può essere invocata, in tale ambito, la nozione di bene “impignorabile”, poiché la confisca non costituisce un atto di esecuzione civile, bensì una misura di sicurezza patrimoniale. Di conseguenza, la “prima casa” non è al riparo dal sequestro o dalla confisca penale, se essa rappresenta, anche solo in parte, il profitto o il valore corrispondente al reato tributario.
Un ulteriore profilo affrontato dalla Cassazione riguarda la confiscabilità di beni in comunione legale tra coniugi. Anche sotto questo aspetto, la Corte ha escluso che il vincolo penale sia precluso, affermando la legittimità del sequestro preventivo per equivalente della sola quota di proprietà dell’indagato. In tal caso, si realizza una comunione ordinaria tra lo Stato (per il tramite dell’Agenzia del Demanio) e il coniuge non indagato, secondo la disciplina di cui agli artt. 1100 ss., c.c..
La decisione conferma dunque una linea interpretativa di rigorosa distinzione tra espropriazione tributaria e confisca penale, coerente con la natura dei rispettivi istituti. Mentre la prima è volta a tutelare l’interesse erariale nel rispetto dei limiti di proporzionalità e tutela del contribuente, la seconda si colloca nel perimetro della repressione penale dei reati tributari, dove l’interesse pubblico alla rimozione del profitto illecito prevale su ogni considerazione patrimoniale del reo.
In prospettiva sistematica, la pronuncia n. 34484/2025 contribuisce a chiarire che il diritto all’abitazione non può fungere da scudo contro la confisca penale quando l’immobile rappresenta il frutto o l’equivalente economico dell’evasione. Resta, tuttavia, aperto il tema del bilanciamento tra il principio di proporzionalità della misura ablativa e la tutela dei soggetti estranei al reato, in particolare del coniuge non colpevole, questione che la giurisprudenza dovrà ulteriormente affinare per evitare effetti eccessivamente afflittivi.
La Corte, in definitiva, ha rigettato il ricorso e condannato il contribuente al pagamento delle spese processuali, sancendo un principio destinato a incidere profondamente nella prassi applicativa: nei reati tributari, la “prima casa” non gode di alcuna immunità rispetto alla confisca penale; l’art. 76, D.P.R. n. 602/1973, infatti, resta confinato alla sfera della riscossione esattoriale e non può essere invocato per eludere le misure ablative disposte nell’ambito del procedimento penale.


