La conciliazione giudiziale nella riforma del processo tributario
di Francesco FerrajoliLuigi FerrajoliLa conciliazione giudiziale, quale strumento deflattivo del contenzioso tributario, è una tecnica di composizione della lite utilizzata dal Legislatore per ridurre il numero dei giudizi pendenti con la partecipazione diretta del contribuente. L’istituto è stato caratterizzato da un iter legislativo piuttosto travagliato, subendo, da ultimo, importanti modifiche a opera della Legge n. 130/2022, di riforma della giustizia e del processo tributario, che assurge a punto di arrivo di una lenta evoluzione del sistema di tutela giurisdizionale in materia di tributi. Nel prisma della riforma del processo tributario, le modifiche apportate alla conciliazione giudiziale, nell’ambito di una magistratura tributaria di ruolo, perseguono l’obiettivo di assicurare un giusto equilibrio tra la pretesa fiscale e i diritti del contribuente, nel rispetto del principio di capacità contributiva a fondamento dell’ordinamento tributario ex art. 53, Costituzione. È, difatti, evidente che la Legge n. 130/2022, intervenendo sull’istituto conciliativo, ha inteso incrementare gli strumenti deflattivi del contenzioso, riconoscendo al giudice tributario la facoltà di formulare una proposta conciliativa e predisponendo una normativa di natura “sanzionatoria-intimidatoria” in materia di spese processuali.
La conciliazione giudiziale quale strumento deflattivo del contenzioso tributario nella fase successiva all’instaurazione del giudizio
La conciliazione giudiziale, quale strumento deflattivo del contenzioso tributario, è una tecnica di composizione della lite utilizzata dal Legislatore per ridurre il numero dei giudizi pendenti dinanzi agli organi della giurisdizione tributaria con la partecipazione diretta del contribuente.
L’istituto rappresenta una tappa fondamentale nella disamina delle relazioni tra processo tributario e difetto di cooperazione nell’attuazione del rapporto impositivo, sollevando non poche perplessità correlate alla necessità di coordinare le esigenze di una definizione concordata della lite fiscale e l’indisponibilità del tributo, corollario del principio di capacità contributiva.
La figura è frutto di una politica legislativa proiettata alla definizione, con mezzi alternativi, delle controversie pendenti tra Fisco e contribuente, consentendo a quest’ultimo di estinguere il proprio debito tributario attraverso il patteggiamento delle somme dovute.
In ambito tributario, prima dell’introduzione della conciliazione giudiziale, le parti avevano la facoltà di risolvere liberamente la controversia pendente al di fuori della sede processuale, rinunciando, in tutto o in parte, alle proprie pretese; il giudice tributario, a sua volta, si limitava a una presa d’atto della rinuncia, decidendo la controversia residua o dichiarando cessata la materia del contendere su concorde ed esplicita dichiarazione delle parti.
L’introduzione di questo strumento deflattivo è sintomatica dell’evoluzione ordinamentale da un sistema basato su una visione conflittuale del rapporto tributario a una struttura ordinante fondata sulla collaborazione e sulla fiducia reciproca delle parti, che consente di contemperare l’interesse fiscale alla celere percezione del tributo e il diritto del contribuente a essere tassato secondo la legge.
La conciliazione tende a favorire la dialettica fra Fisco e contribuente in una fase successiva a quella dell’accertamento, al fine di snellire il contenzioso pendente e assicurare la celere liquidazione dei tributi mediante una soluzione concordata tra contribuente ed ente impositore, in grado di realizzare la cessazione (totale o parziale) della materia del contendere e garantire la ragionevole durata del processo.
In questo contesto, l’interesse all’immediata e definitiva riscossione sembra essere prevalente rispetto all’esigenza di una maggiore giustizia degli esiti processuali. Per la sua connotazione temporale, la tecnica conciliativa realizza una forma di tutela processuale in senso stretto, potendo intervenire soltanto a seguito della formale instaurazione del giudizio, in un momento successivo alle tutele previste nella fase procedimentale (accertamento con adesione), assurgendo così a uno dei possibili esiti della controversia.
Si tratta dell’ultima sede possibile di composizione concordata delle controversie in materia d’imposta.
La conciliazione in udienza e la conciliazione fuori udienza
La conciliazione giudiziale tributaria, la cui attuale fonte normativa si rinviene negli artt. 48, 48-bis, 48-bis.1 e 48-ter, D.Lgs. n. 546/1992, è stata caratterizzata da un iter legislativo piuttosto travagliato, subendo, da ultimo, importanti modifiche a opera della Legge n. 130/2022, di riforma della giustizia e del processo tributario, che costituisce il punto di arrivo di una lenta evoluzione del sistema di tutela giurisdizionale in materia di tributi.
Gli interventi normativi che hanno interessato l’istituto sono anche conseguenza dell’orientamento giurisprudenziale, con il quale è stato ribadito che il canone ermeneutico della ragionevole durata del processo impone di favorire l’adozione di istituti deflattivo-conciliativi.
Attualmente la conciliazione, senza apparenti limitazioni, può riguardare qualsiasi controversia tributaria – incluse le liti attinenti esclusivamente all’irrogazione delle sanzioni o quelle da rimborso – e può avere a oggetto sia questioni di fatto che questioni di diritto.
Dal punto di vista procedurale, la conciliazione può avvenire tanto nel I quanto nel II grado di giudizio, “in udienza” o “fuori udienza”.
Nel silenzio della legge, anche nell’ipotesi in cui la conciliazione sia stata tentata senza successo in I grado, nulla osta a un nuovo tentativo di conciliazione in II grado; l’opzione di estendere la conciliazione anche nei processi tributari pendenti in Cassazione era stata, invece, esclusa dal Legislatore, in ragione della particolare natura di tale grado di giudizio, dal quale sono esclusi gli accertamenti in fatto. Sennonché, in sede di delega fiscale, l’art. 19, comma 1, lett. h), Legge n. 111/2023, nel fissare i principi e i criteri direttivi per la revisione della disciplina e dell’organizzazione del contenzioso tributario, ha delegato il Governo a prevedere interventi di deflazione del contenzioso fiscale in tutti i gradi di giudizio, ivi compreso quello dinanzi alla Suprema Corte, in modo da favorire la definizione agevolata delle liti pendenti. Il D.Lgs. n. 220/2023, sulla revisione della disciplina del contenzioso tributario, in attuazione della delega di riforma del sistema fiscale, ha previsto l’inserimento all’interno dell’art. 48, D.Lgs. n. 546/1992 del comma 4-bis, volto a estendere, nei limiti di compatibilità, la disciplina della conciliazione fuori udienza alle controversie pendenti dinanzi alla Corte di Cassazione, prevedendo, in caso di perfezionamento della conciliazione, l’applicazione delle sanzioni amministrative in misura pari al 60% del minimo edittale.
Nella conciliazione “fuori udienza”, espressamente disciplinata dall’art. 48, D.Lgs. n. 546/1992, è necessario il deposito, in I o in II grado, di un’istanza congiunta (vale a dire, di una proposta di conciliazione alla quale l’altra parte abbia previamente aderito), datata e sottoscritta di persona ovvero dai difensori delle parti, contenente oltre all’indicazione della Corte di Giustizia Tributaria adita e ai dati identificativi della controversia, la manifestazione della volontà di addivenire alla definizione totale o parziale della lite, unitamente all’indicazione del quantum debeatur, alle ragioni che sorreggono la conciliazione e all’accettazione incondizionata di tutti gli elementi della proposta.
Nella vigente formulazione normativa, è chiara la distinzione tra proposta e accordo conciliativo: prima si raggiunge l’accordo sottoscritto da entrambe le parti, poi queste presentano congiuntamente istanza al giudice per addivenire alla definizione della lite. Nel previgente testo, invece, si confondeva la proposta di conciliazione (vale a dire, l’atto contenente la determinazione del quantum d’imposta) con l’istanza rivolta al giudice preordinata a far dichiarare cessata la materia del contendere.
Il presidente della Sezione (o la Corte di Giustizia Tributaria ove sia stata già fissata l’udienza di trattazione), accertata la sussistenza delle condizioni di ammissibilità della proposta, esamina l’accordo conciliativo e dichiara con decreto (ovvero con sentenza ove si tratti della Corte) l’estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere, salvo che l’accordo conciliativo sia solo parziale; in tal caso, la Corte dichiara con ordinanza la cessazione parziale della materia del contendere e procede, per il resto, all’ulteriore trattazione della causa.
La nuova disposizione, tuttavia, non fissa un termine per il deposito dell’accordo di conciliazione, che, invece, era in precedenza individuato nella data di trattazione in camera di consiglio o di discussione in pubblica udienza del giudizio di I grado.
Ciononostante, anche nella vigente disciplina, un limite temporale può essere rappresentato dal momento in cui la causa viene trattenuta in decisione, superato il quale appare vanificato lo scopo deflattivo del contenzioso a cui è preordinata la conciliazione: pertanto, il deposito della proposta pre-concordata deve avvenire non oltre l’ultima udienza di trattazione (in camera di consiglio o in pubblica udienza) del giudizio di I o di II grado; tale limite temporale può essere superato qualora la causa, dopo l’udienza di trattazione, sia trattenuta in riserva.
Nella conciliazione “in udienza”, disciplinata dall’art. 48-bis, D.Lgs. n. 546/1992, invece, ciascuna delle parti, sia in I che in II grado, può presentare un’istanza per la conciliazione totale o parziale della controversia, entro i 10 giorni liberi precedenti la data dell’udienza di trattazione.
Nel corso dell’udienza, la Corte, in presenza delle condizioni di ammissibilità, invita le parti alla conciliazione, rinviando eventualmente la controversia all’udienza successiva per consentire il perfezionamento dell’accordo conciliativo, a cui fa seguito l’estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere dichiarata con sentenza, in caso di conciliazione totale, ovvero la parziale estinzione della materia del contendere – dichiarata con ordinanza – e la prosecuzione della causa, in caso di conciliazione parziale.
In entrambe le ipotesi, il momento di perfezionamento della conciliazione non è più ricollegato, come in passato, al pagamento delle somme dovute, bensì alla sottoscrizione dell’accordo conciliativo, ove la conciliazione avvenga “fuori udienza”, e alla redazione del processo verbale, in caso di conciliazione “in udienza”. Entrambi gli atti, contenenti l’indicazione delle somme dovute (a titolo di imposta, sanzioni e interessi), dei termini e delle modalità di pagamento, costituiscono titolo per la riscossione di quanto dovuto e hanno efficacia novativa del precedente rapporto e sostitutiva dell’atto impugnato, ragion per cui il mancato versamento – nei 20 giorni successivi alla data di sottoscrizione dell’accordo conciliativo o alla redazione del processo verbale – legittima l’iscrizione a ruolo del credito derivante dall’accordo stesso. Per effetto di tali modifiche, il procedimento conciliativo è stato oggettivamente semplificato.
L’art. 48-ter, D.Lgs. n. 546/1992, disciplina il regime delle sanzioni tributarie amministrative, che, in caso di conciliazione perfezionata nel corso del I grado di giudizio, trovano applicazione in misura pari al 40% del minimo edittale (in luogo della disciplina previgente, che faceva invece riferimento all’entità del tributo risultante dalla conciliazione); la percentuale è elevata al 50% ove la conciliazione venga perfezionata in sede di gravame ed al 60% nel caso di conciliazione avanti la Corte di Cassazione.
Gli effetti della conciliazione sul piano delle sanzioni tributarie penali continuano a essere disciplinati dall’art. 13, D.Lgs. n. 74/2000, con la possibilità di procedere al pagamento in forma rateale delle somme dovute.
La proposta conciliativa formulata dalla Corte di Giustizia Tributaria. I confini applicativi dell’istituto
Con l’art. 4, comma 1, lett. g), Legge n. 130/2022, riprendendo quanto prospettato dalla Commissione interministeriale per la riforma della giustizia tributaria, è stato inserito, all’interno del D.Lgs. n. 546/1992, un nuovo art. 48-bis.1, rubricato “Conciliazione proposta dalla Corte di Giustizia Tributaria”, al fine di consentire al giudice tributario, ove possibile (vale a dire, in presenza delle condizioni di ammissibilità della conciliazione, consistenti nella tempestività, ritualità e procedibilità del ricorso), tanto fuori udienza (sia antecedentemente alla prima udienza che successivamente, ove vi sia stato un rinvio), quanto nel corso della prima udienza, di formulare alle parti (ovvero a chi le rappresenta in giudizio) la proposta di conciliazione, avuto riguardo all’oggetto della controversia (ad esempio, giudizio d’impugnazione di un atto impositivo, di riscossione, sanzionatorio o lite da rimborso) e ai precedenti giurisprudenziali.
Anche in presenza di tali condizioni, la formulazione della proposta di conciliazione rappresenta comunque una facoltà per l’organo giudicante, ragion per cui, ove lo stesso non ritenga di agire in tal senso, si procede direttamente alla trattazione della causa.
La collocazione topografica della norma – sintomatica della volontà legislativa di creare un filo conduttore con la conciliazione “fuori udienza” e con la conciliazione “in udienza” – è fonte di non poche perplessità, in quanto la conciliazione proposta dalla Corte di Giustizia Tributaria presenta tratti peculiari e caratteristici (in ragione del ruolo assunto dal giudice tributario), che avrebbero reso auspicabile una maggiore autonomia piuttosto che una continuità con quanto già esistente.
Questa disciplina presenta l’indubbio vantaggio di incidere ulteriormente sulle scelte delle parti, essendo la proposta formulata dal giudice in qualche modo indicativa dell’orientamento della Corte di Giustizia Tributaria adita.
Le ragioni alla base della previsione normativa sono da ricercarsi nella necessità di stimolare sempre più un dialogo tra Amministrazione finanziaria e contribuente, improntato ai principi di leale collaborazione e buona fede, attraverso la presenza di un organo terzo e imparziale che, dopo aver formulato la proposta conciliativa, in caso di accettazione, ne formalizza il contenuto nel processo verbale.
L’istituto – che riecheggia, con le opportune differenziazioni, il tentativo di conciliazione esperito d’ufficio dal giudice ai sensi del previgente art. 48, comma 2, D.Lgs. n. 546/1992, soppresso a decorrere dal 1° gennaio 2016 per effetto dell’art. 9, D.Lgs. n. 156/2015, consente alla Corte di Giustizia Tributaria investita della controversia di farsi promotrice della definizione anticipata della lite, ove, sulla base degli atti processuali in suo possesso, ravvisi l’opportunità di procedere a una composizione tra le parti.
Si tratta di una conciliazione ope iudicis, nella quale, accanto alle parti naturali del processo tributario, interviene, in veste di garante, l’organo giudicante al fine di sancire la legittimità e la correttezza della definizione anticipata della controversia.
In ordine all’ambito applicativo, la conciliazione su proposta del giudice viene estesa, siccome non più limitata alle controversie reclamabili (considerata l’abrogazione dell’istituto del reclamo-mediazione) e non più limitata alle questioni di facile e pronta soluzione. Viene solo stabilito che nella proposta si tenga conto dei precedenti giurisprudenziali. In pratica, si possono conciliare anche fattispecie complesse e di elevato valore. Il riferimento ai precedenti giurisprudenziali, imponendo al giudice che questi vengano riguardati, si presta a essere inteso in 2 significati alternativi. Nel primo, sarebbero conciliabili solo fattispecie rispetto alle quali esistano precedenti. Nel secondo, i precedenti sarebbero solo la guida per la proposta, ove esistano. Se prevalesse il primo senso, il Legislatore consentirebbe al giudice di sbilanciarsi solo se supportato da precedente giurisprudenza. Tale possibile limitazione appare di dubbio fondamento: non sembrano lesi interessi delle parti nelle ipotesi in cui si tratti di questioni nuove.
Gli aspetti procedurali e il regime degli effetti
Dal punto di vista procedurale, la proposta di conciliazione può essere formulata dalla Corte di Giustizia Tributaria in udienza o fuori udienza: nel primo caso, va comunicata alle parti non comparse e verbalizzata in udienza; nel secondo, va formulata per iscritto e comunicata a tutte le parti in causa, con la fissazione di una nuova udienza. La mancata comparizione di una delle parti non preclude la conciliazione, essendo previsto che la proposta conciliativa sia comunque comunicata alle parti.
Il giudice tributario, se richiesto da una delle parti, può rinviare la causa a una successiva udienza per consentire il perfezionamento dell’accordo conciliativo; il mancato perfezionamento della conciliazione per espresso diniego di una o di entrambe le parti determina il proseguimento, nella stessa udienza, della trattazione della causa fino alla pronuncia della sentenza.
In realtà, al fine di realizzare un’effettiva economia processuale, sarebbe stato preferibile prevedere che la proposta conciliativa fosse formulata dalla Corte di Giustizia Tributaria sempre al di fuori e in data anteriore a quella dell’udienza, in modo da consentire all’organo giudicante di avere contezza dell’oggetto del giudizio e delle posizioni delle parti rispetto alla questione controversa.
L’istituto potrebbe, dunque, comportare un allungamento dei tempi del processo, ove la proposta conciliativa sia formulata in udienza, proprio con riferimento a quelle controversie di minor valore, che invece dovrebbero fluire spedite, rischiando di articolare la fase contenziosa in più udienze fino al perfezionamento dell’accordo conciliativo.
Tuttavia, l’atteso effetto deflattivo verrebbe a “compensare” tale allungamento, essendo peraltro riconosciuta al giudice tributario la facoltà di formulare la proposta conciliativa anche prima dell’udienza, in modo da velocizzare i tempi di definizione del giudizio.
Al pari di quanto accade per la proposta conciliativa formulata dalle parti in causa, anche in tale ipotesi, la conciliazione si perfeziona con la redazione del processo verbale (nel quale sono indicati il quantum debeatur, i termini e le modalità di pagamento), che costituisce titolo per la riscossione delle somme dovute all’ente impositore e per il pagamento di quanto spettante al contribuente.
Anche per la conciliazione proposta dalla Corte di Giustizia Tributaria, l’accordo conciliativo, formalizzato nel processo verbale, ha efficacia novativa del precedente rapporto e sostitutiva dell’atto impugnato, ragion per cui il mancato pagamento delle somme dovute dal contribuente nei 20 giorni successivi alla redazione del processo verbale legittima la sola iscrizione a ruolo del credito derivante dall’accordo conciliativo e l’applicazione delle sanzioni conseguenti all’omesso versamento delle somme dovute sulla base alla conciliazione, che resta valida a tutti gli effetti ai fini dell’estinzione del giudizio.
A seguito del perfezionamento della conciliazione, il giudice tributario dichiara con sentenza l’estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere.
A scopo cautelativo, l’ultimo comma dell’art. 48-bis.1, D.Lgs. n. 546/1992, preclude che la proposta di conciliazione possa costituire motivo di ricusazione o astensione del giudice: la previsione normativa – espressione del principio di civiltà giuridica che impedisce al giudice di formulare “anticipazioni” del suo decidere in corso di causa – mira a scongiurare il rischio che il soggetto giudicante possa essere destinatario di una richiesta di ricusazione ovvero che lo stesso si senta in obbligo di astenersi dall’adottare una decisione nel momento in cui abbia formulato una proposta di conciliazione.
Non sembra, però, possibile paralizzare del tutto un’eventuale azione di ricusazione quale che sia il contenuto della proposta conciliativa: se quest’ultima assume le fattezze di una chiara anticipazione del giudizio, sostanziandosi in un abuso di potere del giudice, non può essere precluso alle parti (in particolare, a quella che dovesse risultare sfavorita dalla proposta) di censurare tale operato attraverso un’apposita istanza di ricusazione.
La ratio della norma risiede, così, nello scongiurare che la proposta conciliativa possa assurgere a una sorta di “precostituzione decisoria”, vale a dire a un’anticipazione della sentenza emessa a seguito dell’eventuale rifiuto della proposta, facendo emergere la natura di conciliatore svolta in questa sede dal giudice tributario, chiamato a tentare di definire, in via anticipata e bonaria, la controversia a lui affidata. L’ultimo comma dell’art. 48-bis.1, D.Lgs. n. 546/1992, dunque, andrebbe letto come disposizione che – dopo aver riconosciuto al giudice tributario il potere conciliativo – ne sottintende il limite che deriverebbe dal suo abuso.
Difatti, nel caso di specie, emerge un innegabile rischio di anticipazione del giudizio connaturato alla proposta conciliativa formulata dal giudice tributario, di cui il Legislatore della riforma risulta essere consapevole escludendo espressamente che la proposta di conciliazione possa costituire motivo di ricusazione o di astensione dell’organo giudicante.
Peraltro, il giudice ha l’obbligo di astenersi dalla formulazione della proposta conciliativa ove gli sia oltremodo chiaro chi abbia (in tutto o in parte) torto o ragione, poiché in quel caso egli dovrebbe subordinare l’obiettivo della deflazione delle liti – proprio della conciliazione giudiziale – alla funzione che primariamente gli compete di attribuire giustizia a chi merita di averla.
Questa lettura consente di chiarire il ruolo e la natura del giudice “conciliatore” nel processo tributario: quando egli formula una proposta conciliativa, dovrebbe temporaneamente svestire l’habitus mentale del decisore per operare come mediatore altamente “qualificato”, tenuto a valutare se, in conformità alla legge e iuxta alligata et probata partium, vi sia spazio per una composizione delle reciproche posizioni.
A tal fine, ispirandosi alla logica dell’aliquid datum et aliquid retentum propria di ogni accordo avente a oggetto una lite pendente, l’organo giudicante dovrebbe far prevalere l’animus mediandi rispetto all’animus decidendi e formulare una proposta che possa essere accettata da entrambe le parti.
La disciplina sanzionatoria-intimidatoria in materia di spese processuali
Essendo nell’interesse dell’ordinamento promuovere un’ordinata composizione delle liti che non impegni gli uffici giudiziari, con la recente riforma della giustizia tributaria è stato favorito il ricorso alla conciliazione anche attraverso la predisposizione di apposite misure incentivanti e disincentivanti.
In particolare, l’art. 4, comma 1, lett. d), Legge n. 130/2022, nel perseguire un’evidente finalità deflattiva e invogliare le parti a conciliare la lite, ha riformulato il comma 2-octies dell’art. 15, D.Lgs. n. 546/1992, addossando le spese di giudizio, con una maggiorazione pari alla metà, a carico della parte che, senza giustificato motivo, rifiuta la proposta formulata dal giudice o dall’altra parte, ove il riconoscimento delle sue pretese risulti, all’esito del giudizio, inferiore rispetto al contenuto della proposta conciliativa.
Con gli opportuni adattamenti, la norma de qua sembra riprendere quanto previsto per il rito civile dal secondo periodo dell’art. 91, comma 1, c.p.c., trattandosi di un’ipotesi di condanna che prescinde dalla soccombenza nel merito, giacché la responsabilità per le spese di lite – anziché dipendere dalla sussistenza del diritto sostanziale – deriva dall’apprezzamento della condotta processuale e, in particolare, dal diniego ingiustificato di addivenire alla conciliazione.
Tale disciplina risulta particolarmente onerosa per la parte che, all’esito del giudizio, risulti in tutto o in parte soccombente: quest’ultima viene sanzionata dal Legislatore per aver inutilmente prolungato la durata del processo.
Si segnala che l’articolo è tratto da “Accertamento e contenzioso”.


