Le modifiche all’indicatore patrimoniale alla base del riporto delle perdite nelle fusioni e scissioni
di Luciano SorgatoPaolo Meneghetti - Comitato Scientifico Master Breve 365Il D.L. 84/2025 (c.d. decreto correttivo) all’articolo 2, comma 1, lettera b), ha introdotto l’ennesima modifica all’articolo 172, comma 7, Tuir, sostituendo le parole “ridotto di un importo pari al prodotto tra la somma dei conferimenti e versamenti fatti negli ultimi 24 mesi anteriori alla data di efficacia della fusione ai sensi dell’art. 2504-bis del cod. civ. e il rapporto tra lo stesso valore economico (risultante da una relazione giurata di stima) e il valore del patrimonio netto contabile” con le parole “ridotto di un importo pari al doppio della somma dei conferimenti e versamenti fatti negli ultimi 24 mesi anteriori alla data di efficacia della fusione ai sensi dell’art. 2504-bis del cod. civ.”.
Con tale modifica viene semplificato il calcolo (prima privo di senso), ma si continua a rinvenire una mancanza di logica sottesa all’effetto diminutivo che la norma procura al valore economico dell’azienda o comunque del patrimonio delle società partecipi delle operazioni di fusione e scissione, come nel proseguo si cercherà di esplicitare.
Volendo esemplificare, si ipotizzi:
Somma dei conferimenti e dei versamenti effettuati negli ultimi 24 mesi: euro 500
Patrimonio netto contabile: euro 4.000
Valore economico dell’azienda: euro 6.000
Ante Decreto
Rapporto tra valore economico e Patrimonio netto contabile: euro 6.000: euro 4.000 = 1,5
Prodotto tra la somma degli apporti e la risultanza dell’indicato rapporto: euro 500 x 1,5 = euro 750
Risultato netto: euro 6.000 – euro 750 = euro 5.250
Post Decreto
Doppio della somma degli apporti effettuati negli ultimi 24 mesi: euro 500 x 2 = euro 1.000
Risultato netto: euro 6000 – euro 1000 = euro 5000
Come noto, fino all’anno 1986, il D.P.R. 598/1973, all’articolo 16, limitava le prescrizioni al testo: “La società risultante dalla fusione o incorporante subentra in tutti gli obblighi e i diritti delle società fuse o incorporate relativi alle imposte sui redditi”, prevedendo, quindi, un subentro successorio plenario della incorporante in tutte le situazioni fiscalmente maturate nei confronti delle società aggregate. Il diritto al subentro nelle perdite era illimitato, indipendentemente se esse fossero sintomatiche di società imprenditorialmente inaridite e patrimonialmente svuotate, oppure di temporanea flessione reddituale dei cicli imprenditoriali, comunque raccordati a strutture produttive ancora efficienti. Tale piena libertà di compensazione con le perdite delle società fuse/incorporate aveva favorito il commercio delle c.d. bare fiscali, il cui unico asset appetibile era proprio rappresentato dal riporto delle perdite, come era dato rinvenire nella relazione di accompagnamento allo schema del D.L. 277/1986, dove testualmente si evidenziava: “tale assetto normativo consentiva fenomeni di rincorsa e quasi di incetta di società in perdita, con perdite che superano, spesso anche di molto, il patrimonio netto della società fusa o incorporata, al fine di diminuire se non di annullare il reddito imponibile di società incorporanti aventi redditi particolarmente elevati e dando così luogo a vistose forme di elusione delle imposte …”. La necessità di riportare la fusione ai suoi ordinari paradigmi di scopo, e cioè ad una concentrazione di strutture produttive foriera di un potenziamento di efficienza nelle dinamiche di mercato, con l’articolo 1, D.L. 277/1986, venne previsto il limite di riporto delle perdite da parte della incorporante in misura non superiore all’ammontare del patrimonio netto contabile della fusa/incorporata (misura che veniva ritenuta almeno idonea ad eliminare gli aspetti patologici e di dubbio fondamento giuridico della fusione). Sono, poi, susseguiti altri aggiustamenti normativi sino all’odierna versione letterale. Le modifiche più recenti sono la conseguenza di una meditazione dottrinale che già da tempo remoto aveva prospettato grosse perplessità sull’effettiva portata informativa del Patrimonio netto contabile. Quest’ultimo, pur costituendo un parametro di confronto oggettivo di semplice uso, non appariva nella condizione di rappresentare la vera ricchezza posseduta dalla società, dal momento che trascurava tutte le plusvalenze occulte e non informava di possibili intangibili che avrebbero potuto rivelarsi di strategica importanza per il ciclo imprenditoriale della società. L’introduzione del valore economico razionalizza il parametro di riferimento, ma rimane non logica la decurtazione del medesimo (ora) del doppio dei conferimenti e dei versamenti effettuati negli ultimi 24 mesi.
Con l’attuale riferimento al valore economico, si è passati da una grandezza di ricchezza meramente nominale ad una grandezza di ricchezza effettiva della società, volturando definitivamente il suo originario raccordo causale con l’apporto in denaro o in natura. Essa si è, ormai, ricongiunta alla potenziale redditività che la società è in grado effettivamente di conseguire per far fronte alle perdite pregresse. Il valore economico dell’azienda, anche se per venire conseguito assume a fonte d’innesco la ricchezza nominale della società, non s’interseca con quest’ultima attraverso un mero rapporto permutativo di valori del tutto interscambiabili. Il loro rapporto è di evoluzione e non di mera sostituzione, nel senso che l’apporto nominale di patrimonio costituisce solo la premessa per il conseguimento di una ricchezza nuova e qualitativamente del tutto diversa: statica e meramente numeraria la prima, dinamica e stimata la seconda. Una sorta di fenomeno di volturazione del tutto eterogeneo sul piano della sostanza. Non, quindi, di tipo meramente successorio, ma di sostanziale modifica delle prerogative non più comparabili.
Proprio la rappresentata incomparabilità rende irrazionale l’effetto diminutivo che la norma provoca con la previsione della nettizzazione algebrica del doppio degli apporti e versamenti sopravvenuti negli ultimi 24 mesi. Tale saldo algebrico è del tutto inconciliabile proprio con lo scopo che si prefigge la norma, che è quello di avvicendare un valore numerario poco incline a rappresentare la propositività imprenditoriale e di redditività della società con il suo valore economico. Non trattasi di un correttivo, quindi, che riesca a prospettare una forma di avversione ad una generica immissione patrimoniale solo perseguita per dilatare il parametro numerario di confronto con l’ammontare delle perdite riportabili, ma di una menomazione ad un vero indice di forza economica convertibile in autentico valore reddituale. In conclusione, un conto è un apporto il cui esito d’incastro con la residua consistenza di fattori produttivi e la commisurazione di aumento dell’efficienza dell’azione di mercato è ancora tutto da verificare, ed un conto è un’efficienza imprenditoriale già manifestatasi e determinata attraverso commisurazioni peritali rispondenti a scienza aziendalistica. Anche se all’incremento di valore dell’azienda si fosse reso partecipe l’immissione di nuovo patrimonio negli ultimi 24 mesi, esso, come già sopra rappresentato, non verte più in una condizione statica di mero approvvigionamento di risorse sociali, essendosi commutato in una nuova e tangibile maggiore efficienza produttiva e di redditività che non ha alcun motivo logico di essere falcidiata.


