9 Dicembre 2025

L’IVA sulla reimportazione dei beni lavorati al di fuori della UE

di Marco Peirolo
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La scheda di FISCOPRATICO

Nei casi di esportazione temporanea e definitiva, con la reimportazione dei beni ottenuti dalla lavorazione, l’operatore italiano effettua un’importazione, soggetta a IVA ai sensi dell’art. 67, comma 2, D.P.R. n. 633/1972, che richiama le operazioni di reimportazione a scarico di esportazione temporanea fuori dall’UE e quelle di reintroduzione di beni precedentemente esportati fuori dall’UE.

Ai fini, tuttavia, della determinazione della base imponibile dell’IVA all’importazione, nell’ipotesi di:

  • esportazione definitiva, si applicano i criteri previsti dall’art. 69, comma 1, D.P.R. n. 633/1972, per le operazioni di immissione in libera pratica, sicché l’imposta è dovuta sul valore dei beni importati determinato ai sensi delle disposizioni in materia doganale, aumentato dell’ammontare dei diritti doganali dovuti, ad eccezione dell’IVA, nonché dell’ammontare delle spese di inoltro fino al luogo di destinazione all’interno del territorio dell’UE che figura sul documento di trasporto sotto la cui scorta i beni sono introdotti nel territorio medesimo;
  • esportazione temporanea, l’art. 69, comma 2, D.P.R. n. 633/1972, dispone che l’imposta è dovuta sul maggiore valore assunto dai beni in dipendenza della lavorazione prestata in territorio extracomunitario, alla duplice condizione che:
  • la reimportazione sia effettuata dallo stesso operatore che ha esportato i beni o da un terzo per suo conto;
  • lo scarico della temporanea esportazione avvenga “per identità” e non “per equivalenza”.

Di conseguenza, in caso di cessione ad altro operatore italiano prima della reimportazione, la base imponibile si calcola sul “valore pieno” dei beni, vale a dire sul corrispettivo indicato nella fattura di vendita in possesso dell’operatore che effettua la reimportazione (risoluzione n. 4029/IX/1989).

Dunque, per i beni temporaneamente esportati, non sempre la successiva reimportazione è soggetta a IVA sul solo maggiore valore assunto dalla merce a seguito della lavorazione, quando invece l’art. 88, Direttiva 2006/112/CE, esige che il trattamento IVA dei beni lavorati sia identico a quello applicabile se la lavorazione fosse stata effettuata all’interno dello Stato UE interessato (nella specie, in Italia).

La norma citata, infatti, stabilisce che, per i beni che sono stati esportati temporaneamente all’esterno dell’UE e che sono reimportati dopo aver formato oggetto, al di fuori dell’UE, di riparazione, trasformazione, adattamento, esecuzione e altre prestazioni di lavorazione od opera, gli Stati membri prendono provvedimenti per garantire che il trattamento IVA riservato ai beni ottenuti sia lo stesso che sarebbe stato riservato ai beni in questione se le predette operazioni fossero state eseguite nel loro territorio.

Allo stesso tempo, sempre sul piano comunitario, l’art. 144, Direttiva 2006/112/CE, dispone che gli Stati membri esentano le prestazioni di servizi connesse con l’importazione di beni il cui valore è compreso nella base imponibile. La norma, in proposito, richiama l’art. 86, par. 1, lett. b), della stessa Direttiva, che fa riferimento esclusivamente alle spese accessorie quali le spese di commissione, di imballaggio, di trasporto e di assicurazione, che sopravvengono fino al primo luogo di destinazione dei beni nel territorio dello Stato membro di importazione, nonché quelle risultanti dal trasporto verso un altro luogo di destinazione situato nell’UE, qualora quest’ultimo sia noto nel momento in cui si verifica il “fatto generatore dell’imposta”.

Siccome la lavorazione resa dal terzista extra-UE è territorialmente rilevante in Italia ex art. 7-ter, comma 1, lett. a), D.P.R. n. 633/1972, ed è imponibile IVA in capo al committente con il meccanismo del reverse charge, l’effetto distorsivo, cioè la doppia tassazione della lavorazione, in dogana e in sede di inversione contabile, può essere evitato – in caso sia di temporanea esportazione, sia di esportazione definitiva – ricorrendo alle indicazioni fornite dalla circolare n. 37/E/2011 (par. 5.1), ossia distinguendo a seconda che l’autofattura sia emessa anteriormente o successivamente alla reimportazione.

Ipotizzando che i beni siano inviati al di fuori della UE in regime di temporanea esportazione (c.d. perfezionamento passivo), le modalità operative che l’impresa italiana deve seguire sono indicate dalla nota n. 54819/D/2011 dell’Agenzia delle Dogane.

Se l’autofattura (con addebito dell’IVA) è emessa prima della reimportazione, quando i prodotti compensatori, cioè risultanti dalla lavorazione, vengono dichiarati in dogana, l’operatore nazionale deve esibire:

  • la fattura pro forma utilizzata per vincolare i beni precedentemente esportati in regime di perfezionamento passivo;
  • la fattura del terzista estero;
  • l’autofattura.

La dogana calcola l’IVA all’importazione, che deve essere indicata nella casella 47 della dichiarazione doganale (DAU-IMP), utilizzando il codice tributo “405”, dalla quale va sottratta l’imposta relativa alla lavorazione già assolta dall’impresa con autofattura, da indicare nella stessa casella 47 con il codice tributo “407”. Nell casella 44 del DAU-IMP devono essere indicati gli estremi dell’autofattura presentata in dogana per attestare l’avvenuto assolvimento dell’IVA sulla lavorazione.

Se, invece, l’autofattura (senza addebito dell’IVA) è emessa successivamente alla reimportazione, l’IVA all’importazione deve essere liquidata e pagata in dogana, salvo – ovviamente – che l’importatore presenti la dichiarazione d’intento in quanto esportatore abituale.

La duplicazione d’imposta, in questa ipotesi, è evitata in sede di reverse charge, emettendo autofattura senza applicazione dell’IVA e con indicazione “IVA assolta in dogana con documento doganale n. XY”.

Secondo l’Amministrazione finanziaria, la descritta procedura:

  • scongiura la possibilità che la lavorazione resti detassata in caso di mancata reimportazione in Italia dei beni lavorati;
  • è idonea a risolvere il problema di una eventuale doppia imposizione anche rispetto ad altre operazioni di natura doganale, come nelle ipotesi di:
  • beni acquistati in un Paese extra-UE, sottoposti a lavorazione sempre in territorio extracomunitario, con successiva importazione nella UE;
  • esportazione definitiva di beni ai fini della lavorazione in territorio extracomunitario, senza trasferimento della proprietà, sulla scorta di una lista valorizzata, oppure di un documento di trasporto o di consegna, con successiva importazione nella UE.

Nella risposta a interpello n. 855/E/2021, l’Agenzia delle Entrate ha escluso che, nei casi in cui l’arrivo in dogana dei prodotti compensatori sia successivo a quello in cui andrebbe emessa l’autofattura per il relativo servizio di lavorazione, sia consentito “ritardare” l’emissione dell’autofattura e attendere l’arrivo in dogana dei prodotti compensatori al fine di assolvere al pagamento dell’imposta mediante la procedura doganale. Nella normativa di riferimento non è, infatti, prevista alcuna deroga alla procedura descritta circa l’applicazione dell’imposta in caso di prestazione di servizi resa da soggetto extra-UE territorialmente rilevante in Italia. Pertanto, l’autofattura deve essere regolarmente emessa dal committente italiano ai sensi e nei termini di cui agli artt. 17 e 21, D.P.R. n. 633/1972, ovvero entro il giorno 15 del mese successivo a quello di effettuazione dell’operazione.

Gli eventuali “disallineamenti” tra la base imponibile del servizio di lavorazione indicata nell’autofattura e la base imponibile del medesimo servizio calcolata in dogana, al momento della reimportazione dei prodotti compensatori, dovranno essere “regolarizzati” mediante l’emissione di note di variazione ai sensi dell’art. 26, D.P.R. n. 633/1972.