Sanzioni tributarie inapplicabili se è obiettiva l’incertezza normativa: giudici da sollecitare sul piano dell’equità?
di Silvio RivettiL’art. 8, D.Lgs. n. 546/1992, dispone che il giudice tributario, sia di I° che di II° grado, è chiamato a dichiarare inapplicabili le sanzioni tributarie non penali, quando la violazione delle Leggi tributarie da parte dei contribuenti risulti giustificata da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni, cui le violazioni stesse si riferiscono.
La norma traccia, in termini di diritto positivo, un’importante linea di faglia nel granitico principio giurisprudenziale, desunto dal testo dell’art. 5, D.Lgs. n. 472/1997, e largamente condiviso dall’Amministrazione finanziaria, per cui il contribuente che violi la normativa tributaria si presume sempre e comunque in colpa – essendo sufficiente, ai fini della sua responsabilità, la mera coscienza e volontà del suo comportamento (fra le molte, Cass. n. 22679/2022); consentendosi in ogni caso, agli autori dei contestati illeciti, di rendere dimostrazione dell’assenza di alcuna negligenza, imprudenza o imperizia nelle proprie azioni od omissioni.
Ora, se si considera che la disposizione in esame, operativa sul piano strettamente processuale (perché si rivolge al giudice), è tutt’altro che isolata o aliena rispetto al sistema normativo sostanziale di riferimento – perché identiche previsioni si riscontano pure nello Statuto del contribuente, Legge n. n. 212/2000 – per il cui art. 10, comma 3, primo periodo, «Le sanzioni non sono comunque irrogate quando la violazione dipende da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma tributaria o quando si traduce in una mera violazione formale senza alcun debito di imposta; in ogni caso non determina obiettiva condizione di incertezza la pendenza di un giudizio in ordine alla legittimita’ della norma tributaria» – nonché nello stesso D.Lgs. n. 472/1997, disciplinante la materia delle sanzioni tributarie – per il cui art. 6, comma 2, è previsto che «Non è punibile l’autore della violazione quando essa è determinata da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferiscono» – allora deve dirsi a dir poco sorprendente il fatto che, dell’applicazione concreta a favore dei contribuenti di tale robusto e monocorde corredo normativo, come predisposto a massimo favore degli stessi, non vi sia pressoché traccia nella giurisprudenza di merito come di legittimità: se non nel senso di un prevalente rigetto delle eccezioni spese dai ricorrenti in questo senso.
Appare a dir poco paradossale che, in un sistema normativo notoriamente complesso e ambiguo come quello tributario nazionale, il cui stesso dominus, il Legislatore, pare adombrare più di un sospetto sulla chiarezza delle sue stesse norme – al punto di predisporre ben 3 distinte e coerenti previsioni, per mandare esente da punizione i suoi contribuenti, se le loro violazioni derivano dalle modalità incomprensibili di stesura delle sue stesse regole fiscali – in definitiva la tutela del contribuente dal peso eccesivo del carico sanzionatorio su di esso incombente si riduca, nei fatti, a cosa così modesta.
Del resto è notorio come la Cassazione abbia, sul tema in esame, più volte assunto una linea interpretativa fortemente restrittiva, evidenziando l’eccezionalità dell’applicazione delle guarentigie in parola, ad esempio solo in presenza di caratteristiche intrinsecamente e obiettivamente confusive del dato normativo (a nulla rilevando gli errori interpretativi “soggettivi”), ovvero a fronte di una pluralità di prescrizioni dal contenuto equivoco, connotate da elementi di confusione “positivi”; allora tipicamente individuandosi il ricorrere dell’incertezza normativa “oggettiva” da una serie di indici standard, quali le difficoltà di individuare le disposizioni normative di riferimento o le relative formule dichiarative, o di determinarne il significato; la mancanza di informazioni o di prassi amministrative, o la loro contraddittorietà; l’assenza di precedenti giurisprudenziali o l’esistenza di contrasti in giurisprudenza (specie se sollevate questioni di legittimità costituzionale); o infine il contrasto tra prassi amministrativa e giurisprudenza, tra opinioni dottrinali, ovvero l’esistenza di norme d’interpretazione autentica (o meramente esplicative di una disposizione implicita preesistente: per tutte, Cass., n. 32779/2022).
Se quanto precede è vero, è plausibile che i ricorrenti non siano, forse, del tutto esenti da colpe: trattandosi di eccezioni, quelle in tema di oggettiva incertezza normativa, non rilevabili d’ufficio e quindi richiedenti una predisposizione accurata, e non superficiale e generica, in sede di ricorso.
Poiché, dunque, l’onere di allegare la ricorrenza dei “positivi” elementi di confusione nella normativa tributaria, o delle “perturbazioni” della sua linea interpretativa nella prassi o nella giurisprudenza, grava sul contribuente, può essere utile interrogarsi se non giovi, a questo fine, il richiamo a un dato normativo positivo: quello dell’innesto della previsione della disapplicazione delle sanzioni, di cui all’art. 10, comma 3, Legge n. 212/2000, sopra citato, nel corpo di una norma dedicata alla tutela dell’affidamento del contribuente e ai suoi profili, insieme oggettivi e soggettivi, di “buona fede”. E se il nostro sistema appare univocamente restìo a riconoscere, in ambito tributario, una presunzione sic et simpliciter di buona fede del contribuente, nondimeno il criterio di buona fede è pur sempre un criterio normativo a tutti gli effetti, che i) il giudice ben può valorizzare se adeguatamente sollecitato; e che ii) si può ben provare, facendo riferimento, per esempio, alla condotta e alla personalità dell’agente, o ai suoi precedenti, ex art. 7, D.Lgs. n. 472/1997.
È noto che non è consentito al giudice tributario di decidere la causa salomonicamente ovvero “secondo equità”, non ammettendosi il ricorso a criteri equitativi “sostitutivi” rispetto a quelli strettamente legali, che correttamente devono presiedere all’applicazione delle norme disciplinanti un settore, quello fiscale, salvaguardato dalla riserva di Legge relativa ex art. 23, Costituzione.
Nondimeno, la giurisprudenza ammette il giudice tributario, che è pur sempre il giudice del merito del rapporto tributario controverso, a effettuare giudizi “estimativi” quanto alle pretese dell’Amministrazione finanziaria, integrandosi qui un’ipotesi non di equità “sostitutiva”, bensì “integrativa” e validamente ammessa: potendo il giudice ridurre tali pretese ritenendole parzialmente sfornite di prova, o accogliendo in parte le prove offerte dal contribuente (cfr., Cass.,n. 4442/2020). È da chiedersi se un giudizio “estimativo”, che pure è fondato su un dato normativo in senso stretto, oltre che sul merito della pretesa, non possa essere esperito da parte del giudice anche sul tema della sanzione, altrimenti da applicarsi come mero automatismo: sanzione che potrà essere ridimensionata e financo annullata in applicazione di precisi criteri normativi, anche valorizzanti il più ampio contesto di buona fede del contribuente, allorché dimostrabile fattivamente e non solo verbis, nell’interpretazione di un contesto normativo oggettivamente e per sua natura di significativa complessità.


